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#Signoraeconomia: il sandwich della cura porta al burnout: come evitarlo

di Giorgia Marini | 10 Novembre 2024

il carico mentale della cura

Nel bellissimo giro di presentazione del nostro libro “Signora Economia” incontriamo tante amiche che ci regalano le loro riflessioni su un tema trattato nel libro e che sta loro a cuore, per esperienza personale, ma anche per argomento di studio. E’ questo il caso dell’intervento di Giorgia Marini (che ringraziamo!) che è stato presentato il 2 ottobre a Roma all’incontro con NoiReteDonne. carico mentale della cura

In #Signoraeconomia viene spiegata in modo molto chiaro come la nostra organizzazione sociale ed economica si appoggi su due domini, quello del matrimonio e quello del patrimonio.

Per secoli, se non millenni, le donne e gli uomini sono stati così segregati in ruoli stereotipati che li hanno privati della libertà di essere e di fare secondo i propri desideri e talenti, e che ancora oggi non abbiamo pienamente superato. Come ci ricordano le autrici

…il matrimonio è caratterizzato da una dimensione soggettiva, si esprime in un contesto privato e ha come finalità il benessere delle persone. In questa dimensione privata i soldi sono il mezzo per acquistare beni/servizi per garantire il benessere delle persone che compongono la famiglia. Il patrimonio invece opera in una dimensione oggettiva e si manifesta in un ambito pubblico esterno alla famiglia. Il patrimonio ha come obiettivo il profitto e pertanto i soldi rappresentano il fine ultimo e le persone il mezzo per raggiungerlo… carico mentale della cura

Si tratta di un argomento che mi interessa molto, in quanto ci ho ritrovato parecchi punti di interesse per i temi relativi alla cura che affronto nella mia ricerca accademica. Per assicurare il benessere delle persone nel matrimonio, occorre infatti applicare una strategia inclusiva basata su solidarietà, relazione, negoziazione e cura. carico mentale della cura

Proprio su questo tema vorrei quindi concentrarmi rispetto alla connessione con l’economia della cura e al carico mentale che si porta dietro.

Gli studi recenti di Elenka Brenna dell’Università del Piemonte Orientale e Cinzia Di Novi dell’Università di Pavia ci confermano con evidenza scientifica quello che osserviamo e viviamo ogni giorno: l’invecchiamento della popolazione comporta un notevole aumento nel bisogno di cure verso le persone anziane che possono essere erogate per via formale (personale qualificato e remunerato) oppure per via informale (amici, parenti e vicine o vicini di casa). In Italia, come sappiamo, l’assistenza della popolazione anziana si appoggia soprattutto sul sostegno della rete familiare, caratterizzato in via predominante dal supporto dei figli adulti, in particolare delle figlie.

Questo modello di welfare familista, tipico per la nostra cultura, sta però cominciando a non essere più sufficiente. carico mentale della cura

I primi baby boomers sono infatti ormai prossimi alla soglia degli ottant’anni (e hanno bisogno di cure) e si tratta di una generazione più numerosa rispetto alle precedenti, che ha anche generato meno figli e figlie e ad un’età più avanzata delle generazioni precedenti.

Per questo motivo, in un’ottica di aiuto reciproco familiare, il rapporto genitori anziani/figli e figlie è oggi fortemente sbilanciato, con meno figli adulti in grado di occuparsi dei propri genitori. Il tutto, inoltre, aggravato dal fatto che questi figli adulti hanno a loro volta generato figli e figlie in età più avanzata e si trovano probabilmente ancora occupati sul fronte genitoriale. In parole povere, le persone di età compresa tra 35 e 59 anni sono strette tra cura verso i genitori e cura verso i figli.

Da questa doppia responsabilità di cura scaturisce il nome di “generazione sandwich”

per la quale l’assistenza è molto gravosa e può comportare rinunce sul piano lavorativo e/o conseguenze negative sulla salute fisica e mentale, soprattutto per le figlie, su cui ricade maggiormente il lavoro di cura. Brenna e Di Novi ci spiegano infatti che:

  • una donna italiana che lavora, che assiste i figli e figlie e che si prende anche cura dei propri genitori anziani è a rischio di burnout (esaurimento). In particolare, rispetto ad una donna non caregiver con le stesse caratteristiche, una donna caregiver della “generazione sandwich” ha una probabilità più alta di soffrire di depressione (+2,3%).
  • questi stessi risultati li ritroviamo anche a livello europeo, soprattutto per le donne dei paesi del Mediterraneo rispetto a quelle che vivono nel centro-nord dell’Europa (divario Nord-Sud): le caregiver mediterranee hanno una probabilità più alta di soffrire di depressione (+7%).
  • le differenze socioeconomiche determinano rischi maggiori per la salute fisica e mentale dei caregiver.

Cosa possiamo fare per evitare che le donne finiscano in burnout da caregiver?

Non esiste una risposta giusta, ma certamente sono fondamentali le politiche di welfare che alleggeriscano il carico dei caregiver sia sotto forma di servizi (servizi per l’infanzia, servizi extrascolastici, servizi di cura e assistenza domiciliare per persone non autosufficienti) che di sussidi.

Come dimostrato da Joan Costa-Font della London School of Economics e Cristina Vilaplana-Prieto dell’Università della Murcia (LINK), sia i sussidi che i servizi riducono la probabilità di sintomi depressivi tra i/le caregiver ma questo effetto positivo in termini di riduzione della depressione dipende dal numero di ore di assistenza fornito. Sopra le 50 ore settimanali di assistenza, funzionano infatti meglio i servizi; mentre sotto le 50 ore settimanali di assistenza funzionano meglio i sussidi.

Interessante, inoltre, è ragionare sull’ammontare di un ipotetico “sussidio per il caregiving”.

Secondo le autrici dovrebbe aggirarsi intorno agli 800-850 euro al mese nel contesto spagnolo, corrispondenti a 9.600-10.200 euro annui. Un importo considerevole se lo confrontiamo ad esempio con il nostro contributo economico per supporto e assistenza a pensionati non autosufficienti, che è compreso tra 1.550 e 6.200 euro annui, in funzione del reddito. Questo paragone ci fa però comprendere bene quanto vale il lavoro di caregiving, se pensiamo che una badante costa alle famiglie 1.400 euro mensili circa, e quanto lavoro soprattutto le donne stiano regalando ai propri cari, alla società e allo stato che se ne dovrebbe fare carico.

Ancora una volta, se si ragiona sulla fattibilità e la sostenibilità delle proposte e non sull’ideologia politica di chi le avanza, ci si rende conto che non ci sono politiche di welfare di destra o di sinistra, ma, più banalmente, politiche di welfare che funzionano o non funzionano a seconda di come sono disegnate, di come sanno intercettare efficacemente il bisogno e, soprattutto, di quanto sono finanziate.

Certamente c’è bisogno di una quantità di risorse importante da dedicare alle politiche per il welfare, ma la strategia migliore per spenderle, massimizzando l’impatto della spesa, è certamente quella di strutturare delle politiche di welfare “personalizzate”, ritagliate sui bisogni individuali.

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Foto di NCInstitute su Unsplash