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Ripartenza femminista alle Hawaii

di Federica Gentile | 7 Maggio 2020

Paesaggio alle Hawaii.
Photo by Braden Jarvis on Unsplash

Volete un piano di ripartenza femminista? Eccolo qui.

Le Hawaii vogliono una ripartenza, ma una ripartenza femminista, da realizzare con un piano intitolato “Building Bridges, Not Walking on Backs: Hawaiʻi State Commission on the Status of Women Department of Human Services State of Hawaiʻi A Feminist Economic Recovery Plan for COVID-19” elaborato dalla Commission on the Status of Women, che, come riporta The Lily, propone di realizzare un “cambiamento culturale profondo”, ristrutturando l’economia e la società in modo da promuovere l’uguaglianza di genere.

Il piano parte da una riflessione fondamentale: la normalità di prima non era normale, non era equa, non era sostenibile. Invece che riportare l’economia alla vecchio status quo, le Hawaii stanno valutando di cogliere l’opportunità di costruire un sistema radicalmente diverso.

Uno dei pilastri del piano per la ripartenza femminista è il riconoscimento del fatto che il lavoro domestico e di cura delle donne, dato per scontato e non pagato è ciò che alla fine ha salvato la società dal collasso, e quindi una nuova normalità non puo’ non prendere in considerazione questo lavoro, rivalutandolo e soprattutto promuovendone la condivisione con gli uomini.

Queste sono riflessioni che in ambito femminista si fanno da decenni.
Come riporta Merisa Thompson nel post Perchè la prospettiva di genere nell’economia politica del COVID-19 è importante Marilyn Waring sin dagli anni ’80,  ha evidenziato come il lavoro non retribuito delle donne (lavoro domestico, cura di bambini, malati e di persone anziane) non è conteggiato nei modelli economici nazionali e nel PIL.

Infatti, le economie nazionali sono basate su – ed estraggono valore – dal contributo di questo lavoro sociale e riproduttivo non retribuito, che include tutto lo sforzo fisico ed emotivo necessario per produrre e prendersi cura degli umani, e quindi per riprodurre la forza lavoro. Si tratta quindi, nella prospettiva del piano, di riconoscere che il lavoro domestico e di cura, pagato e non, è essenziale per l’economia, e di avviare una transizione che lo valorizzi.

Non solo, il piano, si propone di affrontare la crisi nel sistema sanitario, sociale ed ecologico, integrando la prospettiva e il patrimonio di conoscenze dei soggetti più marginalizzati, che sono stati più colpiti dalla pandemia.
E soprattutto in questo il piano, paragonato alle multiple task force italiane tutte al maschile, suona fantascientifico: infatti include la prospettiva ed i bisogni “di donne indigene ed immigrate, caregivers, donne anziane, femmes, e persone non binarie, donne incarcerate, donne senza casa, sopravvissute di violenza domestica e di sex trafficking, e di donne con disabilità”.

Una prospettiva centrata sui soggetti più marginalizzati e sulla centralità della cura deve investire, secondo il piano, su un’infrastruttura sociale e della cura, con “programmi federali e statali per il caregiving, lavori nel sistema della cura che permettano alle famiglie di ricevere dei salari ed indipendenza economica – salari e benefit che permettano ad una donna single di vivere bene. La creazione di lavori nella cura nei servizi di assistenza all’infanzia, di assistenza agli anziani e servizi per la maternità dovrebbe anche essere incredibilmente intenzionale nel reclutare uomini, affinchè questa occupazione non sia così profondamente segregata per genere. Questo [cambiamento] non può ridursi al sussidiare le donne a rimanere nel loro ruolo”.

Tra l’altro, investire in infrastrutture sociali (istruzione, servizi sanitari e di cura, e in particolare, attività di cura rivolte a gli anziani ai bambini in età prescolare e per i/le disabili) ha un impatto maggiore sull’occupazione rispetto all’investimento in infrastrutture fisiche (edilizia, costruzione di strade e ferrovie), come ha dimostrato lostudio “Investing in the care economy” del Women’s Budget Group, che ha preso in considerazione sette paesi OCSE, tra cui l’Italia. In tutti i paesi considerati investire nella cura avrebbe un effetto maggiore sull’occupazione e diminuirebbe il divario di genere tra uomini e donne occupati – che in Italia è intorno al 19%.

Tra le raccomandazioni principali del piano:

Elaborare una risposta femminista al COVID-19 e una ripartenza che siano basate sull’input di settori essenziali che impiegano soprattutto donne, e di organizzazioni che servono donne, ragazze e persone che si identificano come donne, femme, e non binarie.

Per contenere le spese e per aumentare i ricavi lo stato dovrebbe evitare l’austerity e le misure di consolidamento fiscale a tutti i costi perchè esacerbano la recessione. Il documento raccomanda in particolare di non tagliare servizi per le vittime di violenza domestica, per la salute riproduttiva delle donne, e per la salute mentale. In questo il piano delle Hawai per la ripartenza femminista riecheggia ancora una volta le critiche femministe all’austerity: Alicia Girón, economista femminista ed ex presidente di IAFFE, nel 2015 ha dichiarato che “L’ austerity diminuisce il numero di posti di lavoro esistenti e danneggia i posti di lavoro che già esistono. Quando i salari diminuiscono, le donne devono “spremere” il loro budget e il budget familiare. E’ vero anche per gli uomini, ma è peggio per le donne, perche’ c’è stata una trasformazione nelle famiglie. La famiglia classica del dopoguerra era costituita dai genitori e forse da due o tre figli. Non più. Ora sempre più famiglie sono formate da madri che si prendono cura dei bambini da sole.”

Alcuni ulteriori provvedimenti necessari per diversificare e ristrutturare l’economia secondo il piano:

Riorientare l’economia identificando nuove opportunità per creare lavori sostenibili per le donne nelle energie rinnovabili, nell’efficienza energetica, e nel management dell’ambiente, con programmi che promuovono l’uguaglianza di genere ed etnica.

Costruire l’infrastruttura sociale dello stato (servizi di assistenza all’infanzia, istruzione, e servizi sanitari) che ha dimostrato una maggiore efficacia nel ridurre il deficit ed il debito pubblico pubblico rispetto alle politiche di austerity, nell’aumentare l’occupazione e nel promuovere l’uguaglianza di genere.

Porre rimedio alle disuguaglianze economiche per promuovere l’indipendenza finanziaria delle donne, che è una condizione di base per la ripartenza e per la liberazione dalla violenza di genere con varie misure, tra le quali un salario minimo adeguato, reddito di base e congedi parentali e per malattia pagati.

Incorporare completamente la prevenzione della violenza di genere nella risposta immediata al Covid-19 e nella ripresa a lungo termine. Il report infatti evidenzia come per molte donne la casa non sia un posto sicuro, e come la violenza di genere sia aumentata come effetto collaterale della pandemia.

Il piano, che si può leggere integralmente qui, ci dimostra che un altro mondo è possibile. E che è possibile immaginare una società ed un’ economia centrate sui bisogni delle persone. Per concludere con le parole del piano:

Speriamo di fare spazio alle idee della comunità che parlano non solo di risposta [alla pandemia] e di ripresa, ma anche di riparazione e risveglio: riparazione di danni storici e di trauma intergenerazionale che si manifestano come dominazione maschile, violenza di genere, insicurezza economica, un cattivo stato di salute e incarcerazione di massa, che costituiscono una grave minaccia per una società sostenibile e resiliente.

È più chiaro che mai che il capitalismo non può prendersi cura di noi durante il COVID-19. Ora è il momento di dare la priorità a un risveglio di pratiche e conoscenze locali e all’autodeterminazione. Solo in questo modo possiamo sperare di ridefinire le nostre connessioni tra economia e società, con le donne, tra le donne, e con il più vasto mondo di cui siamo parte. Secondo noi non stiamo cercando di “tornare alla normalità” ma di costruire ponti verso un futuro femminista per le Hawai’i.”