Non nominiamo l’innominabile e la diatriba sulle nocciole italiane o non italiane che la Ferrero utilizza per la mitica Nutella, ma recuperiamo un post che parla di cacao, di donne (ovviamente!) e della strana storia di un avvocato trasformato in cioccolataio.
Cacao: una gioia per chi lo mangia, molti dolori per chi lo produce: infatti, a fronte della domanda crescente di cacao, trainata da paesi emergenti che cominciano a consumarne di più, le condizioni di chi produce i chicci di cacao sono tutt’altro che ideali; vari report di Oxfam riportano che i coltivatori di cacao vivono spesso in povertà, e il lavoro minorile abbonda.
US Uncut – e ringraziamo Rosa Amorevole per la segnalazione dell’articolo in italiano – ha parlato della piaga del lavoro minorile in Africa Occidentale, dove bambini/e lavorano in piantagioni di cacao isolate, anche per 80-100 ore la settimana. Tra le aziende accusate di chiudere un occhio sul problema ci sono la Mars e la Nestlè, che hanno promesso di utilizzare cacao completamente libero da lavoro minorile entro il 2020 (prima era il 2005, ma poi ci hanno ripensato).
Di che farsi andare di traverso la tavoletta di cioccolato, eh?
Ma non è finita qui, come riportato da un articolo di The Guardian, il ruolo delle donne coltivatrici di cacao non è adeguatamente riconosciuto, quando invece è centrale. Per esempio in Ghana e in India, le donne sono particolarmente attive in nella fermentazione e asciugatura del chicco, che sono cruciali per determinare il sapore del prodotto finale, il cioccolato che finisce nel nostro stomaco.
Purtroppo, a fronte di questo ruolo fondamentale, le donne tendono ad essere pagate meno degli uomini. Secondo il report Cocoa life. Mainstreaming gender equality in cocoa – 2015 update “in Ghana le coltivatrici di cacao guadagnano il 25-30% in meno che gli uomini. E in Costa d’Avorio, le donne nelle comunità che producono cacao guadagnano il 70% in meno degli uomini. In entrambi i paesi, le donne possiedono circa il 25% delle aziende produttrici di cacao, e in Costa d’Avorio costituiscono circa il 68% della forza lavoro, ma guadagnano solo il 21% del reddito totale generato dalla produzione.
Il problema è stato in qualche modo preso in carico da alcune grandi multinazionali come Cadbury e Mondelez che si sono impegnate a migliorare la qualita’ delle produzioni di cacao, e in Italia, Ferrero si è impegnata a utilizzare solo cacao sostenibile; sul sito si legge infatti che:
“Uno degli impegni principali di Ferrero per la realizzazione di una filiera agricola sostenibile è quello di approvvigionarsi di fave di cacao 100% certificate entro la fine del 2020. Nel 2016/2017, Ferrero ha utilizzato più di 130.000 tonnellate di fave di cacao, di cui il 70% certificate sostenibili, raggiungendo con anticipo l’obiettivo intermedio posto alla fine del 2016.”
Tuttavia, secondo le pagelle di Oxfam sulle pratiche delle multinazionali ”nessuna delle aziende produttrici di cioccolato ha ottenuto una valutazione “buona o “molto buona” nell’affrontare la discriminazione di genere […] Le aziende hanno chiaramente ancora molta strada da fare per promuovere l’uguaglianza di genere nella loro catena dei fornitori”.
Ma se i grandi produttori di cioccolato non si muovono, o lo fanno troppo lentamente, le alternative ci sono. E al di là del Fair Trade, ci sono piccoli produttori che stanno rivoluzionando lo stato di cose dell’economia del cacao, dimostrando che pur all’interno di un sistema ad alto rischio di sfruttamento dei lavoratori e lavoratrici, come è la produzione del cacao, si possono fare piccole e grandi rivoluzioni. Nel caso specifico, Mr. Askinosie, americano di Springfield (Missouri) dopo un’intuizione – attesa 5 anni – su cosa dovesse fare di se stesso, rientrando da un funerale, ebbe l’ispirazione di diventare produttore di cioccolato lasciando la sua carriera di avvocato penalista. Così, dal nulla, fino a creare un prodotto, una crema di nocciole e cioccolato, che ha fatto dire al NY Times: dimenticate la Nutella. La mia anima piemontese rabbrividisce, ma il NY Times ha ragione.
E soprattutto, entrando nella sua fabbrica-negozio – a un paio di km da casa mia – ho trovato ben esposta una tavoletta di cioccolato con il viso di una coltivatrice di cacao. La politica di Askinosie è infatti mettere al centro chi il cacao lo coltiva.
Mr. Askinosie, dopo la famosa intuizione, ha deciso di produrre il proprio cioccolato controllandone la produzione dal chicco alla tavoletta. Non solo, paga i suoi coltivatori e coltivatrici al di sopra dei compensi stabiliti dal Fair Trade, e soprattutto pratica una politica di totale trasparenza, per cui il bilancio dell’azienda è tradotto nelle lingue locali dei coltivatori e coltivatrici cosicché possano vedere i profitti di tutti gli attori coinvolti e soprattutto affinché sia possibile collaborare per aumentare la qualità della produzione (spesso problematica nella coltivazione del cacao) e quindi aumentare i margini di profitto per tutti.
Non basta: volendo migliorare la vita delle comunità locali, in Tanzania e nelle Filippine, dove i bambini e le bambine spesso non hanno garantito un pasto al giorno, Askinosie ha interpellato le associazioni di insegnanti e genitori nelle scuole, chiedendo loro come potessero aiutare le comunità locali. Risultato? A livello locale viene raccolto del riso che viene impacchettato e importato insieme al cacao e venduto negli USA. L’intero ricavato delle vendite va alle comunità locali.
Risultato: una fabbrica di cioccolato che impiega 16 dipendenti di fatto garantisce anche 1.800 pasti caldi al giorno a bambini e bambine a rischio di denutrizione, semplicemente fornendo l’accesso al mercato USA di un prodotto che altrimenti non avrebbe distribuzione.
Askinosie non ha un focus sulla condizione delle donne nella coltivazione del cioccolato, ma ha un focus su qualità e su giustizia che ha creato un paradigma micro-economico che ci fa capire non solo che (quasi) tutto è possibile – fosse pure seguire un’idea balzana avuta mentre si guida di ritorno da un funerale – ma anche come l’economia, e le condizioni di sfruttamento che sembrano quasi inevitabili in un mondo caratterizzato da una crescente disuguaglianza non siano nè insormontabili, nè l’unico modo di fare le cose.