E manovra fu. Dopo una nottata che manco prima della maturità, alla fine il Governo ha approvato la manovra finanziaria per il 2020. Non sappiamo ancora di preciso cosa c’è nella manovra rispetto ai temi a noi cari, alle politiche per le donne e per la famiglia. Sappiamo però che c’è qualcosa. Pare, e sottolineo pare, 600 milioni in un Fondo unico per la Famiglia da spendere in una serie di iniziative di cui hanno parlato i giornali nei giorni scorsi: asilo gratis, assegni per ogni figlio/a, congedi di paternità ecc. Avremo maggiori dettagli nei prossimi giorni, quando verrà presentato un piano di razionalizzazione che lo spiega.
Sarà tanto? Poco? Oppure sarà quel “quanto basta” che nelle ricette di una volta faceva la sottile differenza tra un piatto gourmet e una pietanza per il gatto?
Certo, dopo l’anno micidiale che abbiamo appena trascorso, tra attacchi sessisti alle donne, politiche per la natalità che volevano dare la terra a chi faceva più figli (sì la terra, come nei film western), politiche per la famiglia che aspiravano al modello di donna devota e fattrice inconsulta di prole, ecco, dopo un anno così, il primo pensiero di slancio è: va bene tutto. Già tornare nel nostro secolo e al posto che ci spetta nel mondo occidentale ci pare un risultato di non poco conto per quanto, lo sappiamo, provvisorio.
Dire però “va bene tutto” soddisfa il “quanto basta”? Sì e no.
Qualsiasi cosa sia scritta nel provvedimento che attendiamo, quale che sia la somma effettivamente destinata alle politiche per la famiglia, non sarà infatti certo qualche milione in più o in meno che cambierà in un anno dinamiche strutturali trentennali come quella della denatalità. Quindi sicuramente tutto apprezzabile, dati i tempi, ma si raggiungerà il “quanto basta” se si saprà tarare il passo con una giusta misura tra obiettivi di breve, medio, lungo termine, se si sarà credibili nel comunicare che è davvero iniziato un lungo percorso per risalire la china e per cercare di affrontare problemi che ci trasciniamo da decenni e che non si possono risolvere certo con una sola manovra. Questioni che al momento si possono iniziare ad affrontare, questo sì, ma nella consapevolezza che per problemi complessi ci vogliono soluzioni complesse, che si ottengono non solo con le risorse (che pure sono indispensabili), ma anche con studi e ricerche approfondite (sì, fatte proprio da quelli lì, gli esperti tanto fuori moda), con sperimentazioni, processi partecipati con tutte le parti sociali, con campagne di informazione e di comunicazione diffuse e capillari.
Ma, soprattutto, soprattutto, con un approccio ed un impegno trasversale a tutte le politiche, ben oltre gli stretti confini di competenza delle politiche per la famiglia e le pari opportunità.
Un approccio indispensabile per risolvere la complessità delle variabili di contesto che incidono sulle scelte riproduttive. Per quanto molti editorialisti, uomini e di età matura, attribuiscano gran parte della denatalità alla fine dei valori e al nichilismo culturale, i problemi sono infatti un filo più complessi.
Intanto sfatiamo il mito che le italiane non vogliono fare più figli: su 100 donne tra i 18 e i 49 anni intervistate dall’Istat, quasi 55 hanno già figli, 35 non li ha ancora ma li vorrebbe, solo 10 escludono proprio di non volerne in futuro (ma ciò non toglie che, soprattutto le più giovani, potrebbero ancora cambiare idea). Il desiderio di maternità, dunque, magari un po’ ammaccato, c’è. Ed è un desiderio che bene o male con il primo figlio/a si cerca ancora abbastanza di soddisfare, anche se le scelte della maternità sono rimandate a sempre più tardi, e sempre più spesso a mai più, per motivi di scelte di vita e di lavoro, come spiegato bene qui.
Quello che però davvero fa crollare tutto è il numero dei figli/e dopo il primo. E, come sa ogni madre, i figli/e dopo il primo li devi proprio volere tanto: l’effetto sorpresa è passato, sai benissimo cosa ti aspetta ed in fondo sei già diventata una madre anche con un figlio/a solo.
D’altronde la dimensione materna e genitoriale sta diventando un evento straordinario della vita che sta assumendo contorni sempre più eroici.
Paola Setti lo ha spiegato molto bene nel suo libro “Non è un paese per mamme, appunti per una rivoluzione possibile”, ma se volete un’esperienza diretta sedetevi sulle panchine di qualsiasi giardinetto e aspettate. Verrete travolte da racconti spiritati e in apnea di parti devastanti, di madri sconvolte dall’accudimento in solitaria, notti insonni combinate a giornate lavorative a massima resa produttiva, con spostamenti, trasferimenti e sollevamenti che manco un pesista bulgaro. Per non parlare di combinazioni micidiali con nonni o bisnonni da assistere, spesso non autosufficienti per anni, esborsi da banca svizzera per ripetizioni riparatrici dei danni di insegnanti inadeguati, piuttosto che part time richiesti per seguire i figli/e nei compiti che la scuola non è in grado di rendere autonomi nello studio.
L’abitudine a lavorare con i numeri mi porta a quantificare in soldoni questi racconti. Fare un figlio/a, soprattutto se è un secondo o un terzo, comporta una spesa enorme per una famiglia media.
Secondo Federconsumatori per una famiglia bi-genitore con un reddito netto annuo di 34.000 Euro crescere un figlio/a fino a 18 anni costa mediamente 173.560 Euro, e meno male che si sono fermati nei calcoli a 18 anni. Quindi il conto è presto fatto. Un figlio/a costa come un mutuo ventennale su una casa. Comprate una casa, fate tre figli con 34 mila euro di reddito familiare e vi sobbarcate di quattro mutui. Facile, no? Chissà perché non fanno tutti 3 figli.
Anche il costo della cura, reale o figurato, può incidere sulle scelte di maternità: avere nonni a disposizione H24 che ti allevano un figlio/a non è solo meraviglioso per il calore familiare che avvolge la creatura, ma lo è anche per il portafogli: una baby sitter a tempo pieno in regola, quale che sia il reddito familiare, può costare mediamente tra i 900 e i 1000 euro al mese. Una bella differenza, sia per le scelte di natalità che lavorative tra chi ha i nonni a disposizione e chi no. Purtroppo, però, i nonni di solito sono in salute, disponibili ed entusiasti al primo figlio/a, poi sempre di meno con gli altri.
Il tema del costo dei figli come motivazione della denatalità è dunque molto meno romantico delle spiegazioni legate al declino dei valori dell’Occidente, ma, pur nella sua aridità, influenza, e non poco, le scelte delle giovani coppie al punto che la crisi economica, ad esempio, ha rallentato ulteriormente le scelte di maternità, come è spiegato bene qui.
E quindi, certo, per fare più figli le risorse per le famiglie e per i servizi sono sacrosante e benedette, dunque necessarie ed indispensabili, ma non ancora sufficienti.
Per quanto il costo di accudimento di un figlio/a in Italia sia esorbitante, ridurlo non basta ancora per aumentare la natalità.
Dietro a tutti questi ragionamenti c’è infatti sempre il problema dei problemi, la difficile, complicata, troppo spesso mortificante condizione della donna in Italia.
I figli, al giorno d’oggi, infatti, non solo si fanno in due, ma si mantengono anche in due.
Possiamo quindi avere dei servizi per la famiglia e per l’infanzia a livello della Svezia, ricevere incentivi e sussidi fino ai 18 anni, ma quante giovani coppie se la sentono di mettere al mondo figli senza due stipendi stabili? E quante donne se la sentono di fare figli e di non lavorare, correndo il rischio di rimanere poi separate con due figli a carico e disoccupate? Sempre meno. Non è un caso, infatti che le regioni in Italia con il tasso di occupazione femminile più basso sono anche le stesse con il tasso di fertilità più basso, e viceversa. D’altronde se la soglia di povertà assoluta per una coppia con due figli sotto i tre anni è tra i 1.036,25 euro e i 1.471 euro di consumi mensili, a seconda delle zone del paese, e il reddito netto medio familiare di una coppia con due minori è di 3.071 euro al mese (36.858 all’anno), capite bene come due stipendi siano indispensabili per tenere il rischio di povertà a debita distanza.
Quindi avere più lavoro per le donne è indispensabile per le scelte di maternità.
Ma come far entrare più donne nel mercato del lavoro se il nostro sistema economico e produttivo non sta crescendo? Come permettere loro di mantenere un lavoro se devono colmare da sole tutte le lacune della scuola, della sanità, dell’assistenza agli anziani, di un sistema viario e della mobilità, e di pianificazioni urbanistiche costruite solo per le esigenze produttive e non anche per quelle familiari?
Vedete come affrontare in modo risolutivo il problema della la natalità significa mettere in discussione un paese dalle fondamenta,
ridisegnando tutte le politiche, certo quelle per la famiglia e per le pari opportunità, ma anche quelle per il lavoro, lo sviluppo economico, l’istruzione, la formazione, la sanità, la progettazione delle città, il tutto necessariamente finanziato con risorse provenienti da una seria e profonda riforma fiscale che faccia emergere i 100 miliardi che mancano all’appello ogni anno e che sono indispensabili per fare tutto questo.
Si può arrivare a questo, però, solo se ci decidiamo a crescere come cittadini/e, prima di tutto, e se scegliamo di diventare finalmente un paese normale, nel quale si nasce, si vive e si muore con un accettabile livello di serenità e di sicurezza, costruendo assieme uno Stato che finalmente funzioni e che sappia prendersi cura di tutte e di tutti.