Ovunque ci giriamo ci sono poche donne leader, e pare che la colpa sia anche un po’ nostra, che non ci riconosciamo, appunto, come leader. E se non lo facciamo noi, come possiamo pretendere che lo facciano le altre persone?
Prima però di autoflagellarci e accollarci pure questa, guardiamo un po’ cosa dice la ricerca in materia, soprattutto per quanto riguarda il mercato del lavoro: lo studio di Jack Zenger e Joseph Folkman, riportato dall’articolo When Qualified Women Resist the Leader Label, ha preso in considerazione oltre 60.000 leader ha rilevato che per 17 delle 19 delle competenze di leadership chiave le donne superavano gli uomini, soprattutto nelle aree nello sviluppo personale, nell’integrità e nel prendere iniziative.
Quindi in realtà le donne sono delle leader, ma faticano a presentarsi come tali. Questa mancata percezione cambia però nel tempo, come sottolinea l’articolo:
“nei primi due anni di carriera, il 43% delle donne aspira a raggiungere ruoli di top management, rispetto al 34% degli uomini. Tuttavia, dopo soli due anni, la percentuale di donne aspiranti scende al 16%, mentre si mantiene stabile al 34% tra gli uomini. La fiducia delle donne di poter raggiungere posizioni di top management ha mostrato andamenti simili: la loro fiducia si dimezza man mano che acquisiscono esperienza, mentre quella degli uomini rimane più o meno la stessa.”
Si tratta quindi un “disallineamento invisibile tra competenza e identità che distorce fortemente il panorama della leadership”, che non possiamo però spiegare solo con l’onnipresentre sindrome dell’impostore. Uno studio condotto da Bain elenca tra i fattori alla base di questo disallineamento “la mancanza di supporto e feedback da parte di supervisori, assenza di modelli di ruolo in posizioni di leadership senior, conflitti tra lavoro e responsabilità esterne e percepita discriminazione di genere nelle decisioni riguardo alla promozione.”
Gli stereotipi di genere, per esempio, ci fanno associare alla leadership caratteristiche come l’ambizione e l’essere molto dirette, che sono però considerate maschili. Una donna molto ambiziosa e indiretta raramente viene definita come una leader, più spesso come troppo aggressiva.
E però non basta: Julia Lee Cunningham, Sue Ashford, e Laura Sonday sostengono infatti che entri in gioco un fattore cognitivo importante in questa dinamica, e si sono concentrate su come e se le donne si sentano a loro agio nel vedersi come leader. Le donne, infatti, faticano maggiormente con l’etichetta di leader, con conseguenze importanti: infatti se non ci si vede come leader, allora non si colgono/cercano opportunità di leadership. Una ricerca condotta su LinkedIn ha rilevato che “le donne hanno il 16% di probabilità in meno rispetto agli uomini di dichiarare di avere capacità di leadership, anche quando ricoprono gli stessi titoli di lavoro nella stessa azienda” il che non le avvantaggia di certo sul luogo di lavoro, e non avvantaggia le aziende, considerato che avere più donne leader in azienda è un vantaggio: le società che nominano amministratrici delegate, o che aumentano del 10% le componenti del consiglio di amministrazione o del management, incrementano il loro valore azionario tra il 4,9 e il 6,6%.
E’ quindi necessario correre ai ripari. Per esempio, per aumentare la presenza delle donne leader nelle aziende si possono “[r]ivedere i processi di assunzione per concentrarsi su specifici comportamenti di leadership piuttosto che sull’identità riferita dai/dalle candidati/e del leader” dato che gli uomini più delle donne si definiscono come tali, e “[i]stituire programmi di sponsorizzazione che associno aspiranti leader a modelli di ruolo in grado di fornire supporto e guida”, il ruolo dei/delle mentori è infatti cruciale: secondo la Graduate School of Business di Stanford, l’80% dei CEO ha avuto un/una mentore.
Al di là delle raccomandazioni pratiche, è importante sottolineare che arrivare a considerarsi leader è buono e giusto, sfondare il soffitto di cristallo anche, ma è ancora più importante lavorare per cambiare la cultura aziendale e favorire il miglioramento delle condizioni lavorative di chi il soffitto di cristallo non lo vede neppure con il binocolo.
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