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L’aborto è anche una questione economica

di Federica Gentile | 23 Giugno 2022

I diritti delle donne in questo periodo sono particolarmente sotto pressione, come le notizie non mancano di ricordarci praticamente ogni giorno.

L’ultima in ordine di tempo ci arriva dagli USA, dove il diritto di aborto è di nuovo a rischio:

dopo una prima bozza di parere trapelata qualche tempo fa, ci si aspetta infatti a giorni che la Corte Suprema americana, a maggioranza repubblicana, rovesci la sentenza Roe vs Wade, che nel 1973 ha legalizzato l’aborto a livello federale. Questa decisione significa che le donne che vivono negli USA potranno accedere a questo diritto o meno a seconda dello Stato nel quale vivono. Sarà compito infatti dei singoli Stati legiferare sull’aborto, e se, quindi, in alcuni Stati progressisti non ci saranno particolari  problemi, in altri invece l’aborto sarà illegale. Il tutto peraltro accadrà in contrapposizione con l’opinione pubblica americana, che  è in realtà largamente a favore del diritto di aborto.

Ritorniamo quindi, a distanza di tanti anni, a parlare di diritto di aborto per le donne.

Un diritto che, sappiamo, per essere esercitato non indaga sulle ragioni che portano le donne a questa scelta, ma deve semplicemente consentire loro di poterla fare legalmente con l’accesso al servizio sanitario pubblico.

Se quindi non si vuole entrare nella sfera delle scelte personali, è però importante dal punto di vista sociale e politico ricordare che, tra le tante motivazioni che portano le donne ad abortire, vi sono anche delle ragioni di carattere economico che vanno tenute in considerazione.

Uno studio del Guttmacher Institute ha ad esempio rilevato che  tra le ragioni più frequentemente citate dalle donne per il ricorso all’aborto ci sono il fatto di non potersi permettere economicamente un figlio (73%), di temere ripercussioni importanti sul proprio lavoro, percorso di studi o sulla capacità di prendersi cura di altre persone già a carico (74%), oppure di non voler essere una madre single o avere una relazione problematica (48%).

Se si guardano i dati italiani emerge anche in questo caso quanto le ragioni economiche pesino:

Meno della metà delle donne che ha abortito volontariamente nel 2020 è regolarmente occupata, una su cinque è casalinga, un’altra è disoccupata, con un gap nord-sud palese: il 30% delle donne delle regioni del sud sono occupate, dal 21 al 25% disoccupate ma lavorerebbero, il 30% sono casalinghe.”

Sia che si parli di USA che di Italia, molte delle ragioni che inducono all’aborto riguardano principalmente la posizione della donna nella società e nella famiglia:

studentessa, lavoratrice che non può permettersi una maternità o persona che già si prende cura di qualcuno/a.

Ci sono  poi delle ulteriori condizioni aggravanti di carattere economico: le donne americane non hanno un congedo di maternità pagato, in generale tendono ad essere più  povere degli uomini, e hanno maggiori probabilità di essere caregivers.

Tutte situazioni che aumentano le probabilità di ricorrere all’aborto in caso di gravidanza non programmata, e che alimentano un circolo vizioso soprattutto per le donne che vivono in uno Stato conservatore che non riconosce il diritto all’aborto, con la conseguenza di peggiorarne ulteriormente la condizione economica nel breve e nel lungo periodo e di condizionarne quindi anche le eventuali scelte future di maternità.

Migliorare la condizione economica delle donne è quindi un obiettivo politico indispensabile per ridurre effettivamente gli aborti,

così come lo è anche un investimento importante per favorire una seria educazione sessuale (non imperniata sull’astinenza, per esempio, come avviene negli USA).

Si tratta di provvedimenti che però darebbero alle donne maggiore autonomia e potere di determinazione, tutte libertà che ovviamente i fanatici religiosi e i conservatori americani fautori dell’abolizione del diritto di aborto non vogliono che accada.

Peraltro, quello che sta succedendo in questi giorni non è una novità dal momento che la storia si ripete sempre:

L’aborto, almeno negli USA, ha cominciato ad essere regolato dalla fine del XIX secolo in modo più sistematico e stringente per una serie di ragioni spesso diverse dalla motivazione oggi prevalente del “bambini mai nato”: molte donne morivano a seguito di aborti mal fatti, le madri di famiglia di famiglia bianche e borghesi che non volevano avere troppi figli ricorrevano all’aborto – destando una certa  preoccupazione poiché i Cattolici, gli immigrati e le persone di colore invece continuavano ad averne – e vi era inoltre una forte competizione tra medici ed ostetriche. Si arrivò quindi ad una regolamentazione sempre più stringente che nel 1875 portò l’ Associazione Medica Americana (i cui membri erano uomini, naturalmente) ad attivarsi per rendere illegale l’aborto ad ogni stadio della gravidanza.

I vari Stati americani hanno quindi sempre cominciato ad occuparsi del diritto di aborto, cercando di comprimerlo fino a cercare di negarlo, in reazione ai movimenti di emancipazione femminile, per un mix di ragioni mediche, economiche, di razzismo, e, certamente, di  sessismo.

Anche quello che sta avvenendo in questi giorni, quindi, e non solo negli USA, ha dunque sempre

l’obiettivo finale di controllare il corpo delle donne e quindi la riproduzione,

vista come un processo neutro e “impersonale”.

In realtà quando si parla di riproduzione si parla di persone, di donne e delle loro scelte, che dipendono dal contesto e anche dalle condizioni sociali ed economiche nelle quali vivono. Siamo persone che possono lavorare o no, avere soldi o no, essere nelle condizioni psicologiche fisiche di avere figli o no, che si occupano di qualcuno oppure no.

E come persone, in quanto tali, abbiamo il diritto di decidere cosa fare del nostro corpo.

Allo Stato, se proprio ci vuole aiutare, rimane solo il dovere di migliorare la nostra condizione per consentirci di esercitare tale scelta libere dai vincoli economici e sociali.