Sicurezza. Sono oramai mesi che questa parola monopolizza il dibattito pubblico, con modalità quasi sempre aggressive e intimidatorie. Prevedendo che il caldo e le ferie imminenti possano smorzare il fervore barricadero, è forse giunto il momento di ragionare su questo tema con calma.
“Sicurezza” è un termine latino antico, composto da “sine”, cioè senza, e “cura”, nell’accezione di “affanno”. Cura è una parola bifronte: in senso positivo indica l’attivarsi per il benessere e i bisogni degli altri, in senso negativo mette in evidenza la preoccupazione e l’ansia che il prendersi cura inevitabilmente porta con sé. In entrambi i casi la cura si manifesta in presenza di una vulnerabilità che porta con sé la “paura” di non riuscire a soddisfare un bisogno.
A seconda della tipologia di bisogno ci sono due differenti approcci alla sicurezza/cura, due pilastri sui quali si appoggia tutto il nostro ordine sociale dall’alba dei tempi.
Se il bisogno “di sicurezza” è di tipo materiale ed economico si tratta di una cura “patrimoniale” legata alla dimensione paterna, quindi maschile, al contesto economico-produttivo. La regola alla base della cura del patrimonio è quella del conflitto, con tanto di vincitori e vinti, indispensabile per procacciarsi i beni a danno di altri e a favore della propria famiglia.
Se il bisogno “di sicurezza” è di carattere umano si tratta di una cura nella sua forma “matrimoniale”, legata alla dimensione femminile. In questo caso la regola è quella della cura degli altri attraverso il sacrificio di sé, in una dinamica costante di relazione che impone che i bisogni di tutti siano soddisfatti, a partire dai più fragili.
In passato queste due aree di cura erano rigidamente divise tra compiti di donne e di uomini. Per fortuna la storia ha fatto la sua parte, ed oggi le donne sono sempre più addentro alla sicurezza/cura del patrimonio e gli uomini stanno (ancora troppo) lentamente imparando a impegnarsi nella sicurezza/cura del matrimonio. Ciò non toglie che le due grandi aree di bisogno di sicurezza/cura siano ancora le stesse, a prescindere dal sesso dei protagonisti deputati al loro soddisfacimento.
Nella dimensione pubblica queste due dimensioni di sicurezza/cura si collocano entrambe nell’azione dello Stato che è quindi contemporaneamente sia padre che madre. Padre quando si occupa di economia, sviluppo economico, infrastrutture. Madre quando si impegna nel welfare, nella sanità, nelle politiche sociali, nell’istruzione ecc.
Come nella famiglia, anche nell’intervento dello Stato questi due pilastri devono stare in costante equilibrio perché i/le cittadini/e possano stare bene. Se ci sono squilibri nei quali una dimensione prevale sull’altra le paure prendono inevitabilmente il sopravvento, e si finisce quindi con il produrre sempre reazioni avverse e opposte in un continuo sali e scendi della storia che, alla fine, non ci fa progredire in termini di sviluppo umano, autonomia e, soprattutto, libertà.
Quello che stiamo vivendo in questi giorni è, quindi, sostanzialmente una crisi profonda dello Stato-Madre e una ascesa inarrestabile e prepotente dello Stato-Padre. D’altronde era inevitabile: la crisi del 2008 è stata soprattutto economica, quindi una crisi di patrimonio. Nella versione positiva dello Stato-Padre questo vorrebbe dire investimento nello sviluppo economico, lotta alla corruzione, alle mafie, agli sprechi, investimenti. Ma siamo, purtroppo avvitati in una dinamica perversa che fa emergere dello Stato-Padre solo la parte più distruttiva, quella della violenza verbale, della conflittualità, dei dazi, del protezionismo, della chiusura verso tutto, il nuovo, il diverso, lo straniero, l’omosessuale.
Le donne, soprattutto, proprio in quanto “titolari” storiche della sicurezza/cura relativa ai bisogni umani non devono comparire in questo momento. Tutt’al più è tollerata qualche rappresentanza, ma che non metta minimamente in discussione il quadro d’insieme.
E’ un vento della storia che spira anche a livello internazionale: pensiamo agli USA di Trump, alla Brexit, ai vari populismi europei. Ma noi italiani, in più, ci mettiamo certamente anche del nostro.
Da uno Stato-Madre che a partire dal dopoguerra ha sì costruito il welfare, ma ha anche soddisfatto ogni “capriccio” dei suoi cittadini a danno delle generazioni successive, di spreco in spreco siamo arrivati ad uno Stato tramortito dal debito pubblico, in crisi economica e che ad un certo punto ha mandato un segnale chiaro del tipo: “Sapete che vi dico? I soldi sono finiti, d’ora in poi ve l’arrangiate da soli”. Panico. I cittadini/e, abbandonati dallo Stato-Madre, sono oggi così arrabbiati da riporre le loro aspettative di sicurezza/cura nella forma più populista e arcigna dello Stato-Padre.
E così siamo daccapo. Prima o poi gli eccessi dello Stato-Padre, l’incapacità di dare una risposta reale alle paure e ai bisogni, renderanno indispensabile l’esigenza di ridare spazio, credibilità e affidabilità allo Stato-Madre, che dovrà per forza di cose ricostruirsi attraverso ceti politici in grado di proporre una nuova visione. E chi meglio delle donne, però, potrà dare stavolta una risposta a questi bisogni?
Negli altri paesi questo sta già succedendo attraverso i processi di rigenerazione politica che vedono un maggiore protagonismo femminile: negli USA i movimenti politici e sociali di maggiore opposizione a Trump sono non solo #Metoo e la Womens’ March, ma anche la massa di donne che si stanno candidando alle elezioni di Mid Term e le associazioni di mamme per abolire le armi. In Spagna il nuovo governo di centro sinistra prova a risolvere la crisi economica e catalana con 11 donne ministre e 6 uomini, in altri paesi come l’Argentina, l’Irlanda e la Polonia le battaglie per l’aborto sono un primo indicatore della maggiore presenza delle donne nella vita pubblica.
Mi chiedo se questa chiave di lettura non perpetui ancora una volta lo stereotipo della donna eterna caregiver, limitandone gli spazi e le possibilità. Direi di no, anzi. Non parliamo infatti qui di percorsi di vita, carriere, lavoro, ma di selezionare un nuovo ceto politico con esperienze, valori e capacità differenti da quello che abbiamo avuto ad oggi. Ed è inevitabile constatare che le donne, dopo millenni a generare umanità e ad allevarla, qualcosa in più, o certamente di diverso, l’abbiano imparata dagli uomini, in termini di sicurezza/cura materna.
Riuscire a tradurre queste capacità, sviluppate storicamente nella dimensione privata e familiare, in una visione politica pubblica è una sfida che finora solo poche donne hanno davvero raccolto: la maggior parte si è dovuta troppo spesso adattare ai valori propri dello Stato-Padre per potersi affermare.
Questo passaggio, questa traduzione dell’esperienza di vita familiare delle donne in linguaggi e programmi politici si rivela oggi, però, più necessario per mai, perché, concorderete, data la situazione, ne abbiamo tutti, ma proprio tutti, un disperato bisogno.