L’industria della moda – specialmente la moda “veloce” tipo Zara, H&M, etc è una delle più inquinanti al mondo ed è purtroppo anche tristemente nota per le numerose violazioni dei diritti delle donne che cuciono i nostri vestiti in laboratori nel Sud del Mondo. Per esempio, nel 2013 morirono circa 1000 persone nel crollo di Rana Plaza, la maggior parte persone che cucivano i vestiti per grossi brand come H&M, e che da tempo denunciavano le pessime condizioni dell’edificio.
C’è da chiedersi, quando paghiamo pochi euro per l’ennesima t-shirt, se vale la pena di rischiare di alimentare inquinamento, sfruttamento, e violazioni dei diritti dei lavoratori per un capo di abbigliamento che magari si usa poche volte. Che abbiamo un “piccolo” problema con il consumismo, è ormai un fatto: attualmente nel mondo si consumano circa 80 miliardi di capi di abbigliamento all’anno, una quantità 400 volte superiore a quella di 20 anni fa.
Di positivo c’è che la maggiore attenzione alle questioni ambientali fa sì che consumatori, ma soprattutto consumatrici, si stiano sempre più rendendo conto che è necessario diminuire i propri consumi e stiano diventano sensibili alla necessità di porre dei limiti ai danni fatti dall’industria della moda; secondo una ricerca condotta in Gran Bretagna, il 75% degli intervistati sostiene che i brand marchi di abbigliamento dovrebbero proteggere l’ambiente in ogni fase di produzione.
Sarebbe bello che anche i governi si sensibilizzassero al tema, ma purtroppo, secondo quanto riportato da Fashion Revolution, il governo britannico ha rifiutato di implementare una serie di raccomandazioni dell’Environmental Audit Committe britannico volte a diminuire l’impatto ambientale e sociale dell’industria della moda, malgrado il governo stesso abbia recentemente dichiarato – a differenza dell’Italia – l’emergenza climatica.
Tra le raccomandazioni, che non saranno quindi implementate, ci sono il rafforzamento del Modern Slavery Act, per evitare che sia utilizzato il lavoro forzato nella produzione di abbigliamento e una maggiore trasparenza dell’industria della moda riguardo alla loro catena di fornitori.
Fonte: The UK government response to the Fixing Fashion report lacks action.