Nel 2008, vicino a Siviglia, in Spagna, fu ritrovata una tomba con uno scheletro di 5.000 anni. Le analisi condotte sullo scheletro stabilirono che si trattava di un giovane uomo che venne chiamato Ivory man (uomo d’avorio).
Più recentemente, grazie ad una nuova tecnica che, esaminando i denti, permette di identificare chiaramente il sesso degli scheletri, si è scoperto che l’Ivory man era non un giovane uomo, ma una donna; uno studio di Scientific Reports che discute questo ritrovamento, sostiene che la Ivory lady avesse
“un rango elevato e fosse venerata dalla società in cui visse per almeno otto generazioni dopo la sua morte. Le tombe di dozzine di persone e altre caratteristiche che circondano la sua tomba si estendono a 200 anni dopo la sua morte, secondo la datazione al radiocarbonio. I corredi funerari – compresi gli oggetti con cui è stata sepolta e alcuni, come il pugnale di cristallo, che sono stati aggiunti in seguito – sono i più preziosi tra quelli trovati in oltre 2.000 tombe preistoriche conosciute scoperte in Spagna e Portogallo.”
Insomma, la nostra Ivory lady era potente e riverita, e, pare, non per diritto di nascita, ma per meriti conseguiti “sul campo”, in ambito politico o religioso.
La vicenda di questo ritrovamento è esemplificativa di come tendiamo a proiettare le nostre attuali idee e categorie riguardo al genere, a che cosa significa essere e vivere come uomo o come donna, anche al passato. Per quanto ci si ostini, nel nostro paese ed oltre, a voler imporre visioni della mascolinità e della femminilità restrittive, propinateci come verità immutabili, come se risalissero ai tempi della Ivory lady, il contenuto del genere cambia nel tempo e nello spazio.
Non sappiamo neanche, come sottolineano coloro che hanno lavorato al sito dove è stato ritrovato lo scheletro, se ai tempi della Ivory lady vigesse un sistema di genere binario o se fosse una cultura basata su più di due generi.
Immagine: foto di Jon Butterworth su Unsplash