A parole son tutti buoni a cercare di impegnarsi per ridurre il gender gap in politica, ma alla prova dei fatti le cose si complicano. In Giappone il notevole gender gap in politica (il paese è al 118esimo posto su 146 paesi per la partecipazione politica delle donne) è fonte di imbarazzo ma duro a morire, e, come riporta NBC, ci sono grandi dubbi che si riesca a raggiungere l’obiettivo del governo di avere il 35% di donne candidate alla camera bassa entro il 2025, che effettivamente è dietro l’angolo.
Perché il Giappone fatica così tanto a ridurre il gender gap in politica? A parte un approccio forse un po’ troppo “tiepido” del governo e del partito al governo, LDP, intervengono i soliti stereotipi che vedono lo stile di vita di chi fa politica come troppo faticoso per le donne, e inconciliabile con le responsabilità familiari – sempre qui casca l’asino! Ma le donne giapponesi che si candidano e vengono elette sono anche a rischio di molestie: quasi il 60% delle 5.000 elette a livello locale nel periodo 2020-2021 ha riportato di essere stata molestata da colleghi o dal pubblico, contro un terzo dei colleghi uomini.
Le quote di genere, che a quanto pare in Giappone non sono viste come un provvedimento positivo, sono invece molto utili, come scriviamo nel nostro libro “signora economia”: “Fossimo in
un sistema totalmente privo di pregiudizi, stereotipi e capace di riconoscere il vero merito alla pari, queste
critiche [contro le quote di genere] sarebbero corrette. Sappiamo, però, di vivere in un sistema patriarcale e che la scarsa presenza di donne nelle posizioni di potere non è certo dovuta alla loro mancanza di leadership.” (p. 61) E infatti, altri paesi asiatici che hanno adottato le quote di genere hanno avuto risultati positivi: a Taiwan, per esempio, le donne sono il 41,6% delle persone elette nel parlamento, la percentuale più alta di donne elette in Asia.
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