Il corpo femminile, si sa, è giusto un filo sottoposto ad una pressione sociale e familiare insopportabile, giusto quando va bene e non si arriva invece alla violenza vera e propria.
Se però non è nel mirino del perfezionismo estetico, del bodyshaming e della guerriglia riproduttiva, entra spesso e volentieri nel cono d’ombra della trascuratezza e della negazione dei bisogni delle donne nei loro diversi periodi di vita.
Un caso eclatante, del quale parliamo oggi, è dunque quello della menopausa, un momento della vita che molte donne si trovano ad affrontare tipicamente tra i 45 ed i 55 anni di età. Lo sappiamo, non si tratta di una malattia ma di un passaggio fisiologico, che può comportare per alcune alcuni disturbi fisici, tra i quali le famose vampate di calore, e psicoaffettivi – come maggiore irritabilità, rischio di ansia e depressione.
Insomma, un momento potenzialmente esplosivo.
Parafrasando una famosa citazione, se gli uomini avessero però le gioie della menopausa, questi sarebbero anni di vita consacrati e celebrati. Invece i disagi legati a questo periodo sono spesso un tabù, nascosti e negati pure dalle donne stesse stesse, alla famiglia o al posto di lavoro. Al massimo possono diventare materia di consigli di esperte sulle riviste femminili.
Un aspetto della menopausa del quale non si parla mai è invece quello del suo costo e del business che questa comunque contribuisce a creare.
Sì, c’è tutto un mondo, una vera e propria economia, che ruota intorno alla menopausa. Vediamolo.
Intanto, essere in menopausa può costare di più alle donne per via della necessità di un intervento medico e farmacologico.
Secondo uno studio americano le donne in menopausa hanno livelli maggiori di ansia e depressione, e quindi sostengono costi maggiori in termini di cure sanitarie, quantificabili in $7.237 per le donne in menopausa contro $6.739, per quelle non in menopausa. Per quanto tali cifre riguardino il sistema americano, diverso dal nostro, nel quale la sanità pubblica praticamente non esiste, anche da noi le donne devono comunque sostenere maggiori spese che si traducono in una vera e propria tassa sulla menopausa.
Si tratta di un consumo di farmaci, integratori, cerotti ecc., che rappresenta un bel business per tante aziende,
che appartengono, tra l’altro a settori economici (farmaceutica, sanità ecc) ad elevato tasso di femminilizzazione.
Secondo un rapporto americano, il business della menopausa, tra visite, prescrizioni, farmaci ecc, varrebbe a livello mondiale circa 600 Miliardi di dollari. Non noccioline, quindi.
Tra l’altro, anche volendo, non sarebbe per niente facile rinunciare a trattare i sintomi della menopausa e a “goderseli” in serenità:
l’età media delle donne che entrano in menopausa, 51 anni, le vede in molti casi ancora ben attive nel mondo del lavoro e soprattutto colonne portanti dell’organizzazione familiare – perché vampate o non vampate – quelle tot ore di lavoro domestico non pagato non gliele leva nessuno. Tanto per dire, in Italia, secondo dati Eurostat nel 2010 le donne tra i 45 e i 64 anni dedicavano ai lavori di casa e alla cura dei familiari 5h e 33 minuti, contro 1h e 34 degli uomini.
Si tratta quindi di un momento della vita in cui gli impegni, tra famiglia e lavoro, sono decisamente importanti.
Lavorare con i sintomi della menopausa non è comunque uno scherzo.
Uno studio che riguarda il Regno Unito sottolinea che alcune donne in menopausa riportano problemi come “una minore produttività, ridotta soddisfazione sul lavoro e problemi di gestione del tempo. ”Ogni esperienza è diversa, ma in alcuni casi questi disagi portano a richiedere un orario di lavoro ridotto, a essere discriminate sul posto di lavoro, ed in alcuni casi a lasciare il lavoro. Aggiungiamo anche il fatto che a fronte di tutti questi problemi, molte lavoratrici sono riluttanti ad affrontare conversazioni sulla menopausa con I propri datori e datrici di lavoro o con le risorse umane.
Giusto per dare un’idea del costo della menopausa per il sistema, in UK si stima che circa un terzo delle lavoratrici tra i 50 e i 64 anni abbiano bisogno di assentarsi per alleviare i sintomi della menopausa – circa 24 ore in un anno. Si tratta complessivamente di una potenziale perdita di produttività, in tutta la forza lavoro femminile del Regno Unito, di 14 milioni di giorni lavorativi.
Politiche aziendali di inclusione e di diversity possono quindi fare molto per sostenere le proprie dipendenti in un periodo così complesso.
È anche difficile, inoltre, quantificare il costo “emotivo” o in termini di avanzamento di carriera per chi si trova a dover lavorare e produrre in un contesto decisamente poco accogliente della differenza.
Sempre UK, un rapporto della Fawcett Society che ha riguardato i servizi finanziari, ha riportato che più della metà delle donne (e degli uomini transgender) in menopausa è stata meno propensa a voler fare domanda per una promozione per via dei sintomi della menopausa e che solo il 22% ha parlato della propria situazione sul posto di lavoro.
A questo punto ci si chiede che cosa bisogna fare per sostenere la partecipazione delle donne al mondo del lavoro e garantire che il posto di lavoro non renda l’esperienza della menopausa più faticosa di quel che è?
Si possono prendere provvedimenti come raccomanda ad esempio l’INAIL, che sottolinea l’importanza di “rendere l’ambiente di lavoro consono alle esigenze delle lavoratrici in questo particolare periodo della vita, anche in ottemperanza alla normativa vigente che prevede la valutazione del rischio tenendo conto dell’età e della differenza di genere”.
Il problema, lo sappiamo, non è quindi la menopausa ma il contesto economico, lavorativo e sociale
che non tiene conto delle differenze di genere e spinge verso un unico standard di produttività sagomato, tanto per cambiare, sulla fisicità maschile.
Già le donne sono considerate come (s)gradite ospiti nel mondo del lavoro, figurarsi le donne mature – già in genere discriminate – che possono avere problemi di salute legati alla menopausa e che nell’immaginario collettivo sono sempre ad un passo dal trasformarsi in Erinni assetate di sangue.
Come per tante altre questioni, un’educazione sessuale/sentimentale ben fatta nelle scuole sin dall’infanzia gioverebbe molto alla promozione di un cambiamento culturale che diventa sempre più urgente.
Un esempio positivo e un po’ di speranza, intanto, ce la offre Sadiq Khan, sindaco (femminista) di Londra,
che ha lanciato nel 2022, una policy per la menopausa per chi lavora per il comune e che include anche persone trans e non binarie che possono andare in menopausa. Questa policy consente di prendere giorni di malattia a causa della menopausa, di fare pause sul lavoro in caso di sintomi, e una maggiore flessibilità nell’orario di lavoro. Si tratta di una policy unica a livello mondiale, che Khan si augura sia un buon esempio non solo per il settore pubblico, ma anche per il privato.
Ce lo auguriamo anche noi, quindi, tra una vampata e l’altra, eh 😉