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Donne, uomini, welfare e chi fa che cosa

di Giovanna Badalassi | 27 Gennaio 2016

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In questi giorni, tra reddito minimo, congedi parentali e povertà, si parla molto di Welfare. E quando si parla di welfare penso a mia nonna, classe 1911. Non ha mai lavorato, ma ha speso una vita dietro alla famiglia. Due fratelli maschi, un marito, due figli, parenti anziani a volontà, che sono stati nutriti, lavati, stirati, accuditi negli anni. Pure vestiti. Ebbene sì, aveva le mani d’oro e non si contano i miracolosi cappotti, completi, tailleurs, pigiami, cravatte, camice, maglioni che lei ha cucito, risvoltato, ricamato, riciclato, sferruzzato. In famiglia non si ricorda di averla mai vista riposare. 

Mia nonna è stata insomma una fantastica produttrice di benessere e di Welfare familiare. Come tante altre donne della sua generazione, era quello il ruolo che le veniva socialmente riconosciuto. Un’identità di genere che non prevedeva deleghe, tanto meno allo Stato. In quegli anni non si sentiva quindi il bisogno di asili nido o di servizi di assistenza domiciliare per gli anziani, per non parlare dei congedi parentali. 

Poi, come sappiamo, le cose sono cambiate. La figlia di mia nonna, mia madre, ha studiato, ha lavorato, come milioni di altre donne e di generazioni successive. E’ cambiato il nostro ruolo sociale e, guarda caso, le battaglie degli anni 70 hanno riguardato non solo l’emancipazione e i diritti ma anche la costruzione dei servizi di Welfare pubblici. I sistemi sanitari e sociali nascono infatti proprio in quel periodo grazie alle richieste delle donne di intervento da parte dello Stato. 

A partire da quel periodo una parte del lavoro di cura è stato dunque esternalizzato ed è passato dalla dimensione familiare a quella pubblica, in parallelo al passaggio delle donne da un ruolo sociale esclusivamente familiare e privato ad un ruolo anche lavorativo e quindi pubblico, al di fuori delle mura domestiche. 

I grandi cambiamenti sociali impongono quindi che il chi fa che cosa nella produzione di benessere e di Welfare, tra donne, uomini e Stato, venga rimesso in discussione.  
Le aree di intervento dello Stato, le sue competenze e responsabilità collettive, non sono infatti scolpite nella pietra nei secoli, ma mutano anche rispetto ai cambiamenti del genere, dei ruoli delle donne e degli uomini nelle famiglie e nella società.  

E, dato il ruolo delle donne nella cura familiare, è evidente che, se il welfare pubblico è in sostanza lavoro di cura erogato dallo Stato, le donne ne sono le maggiori beneficiarie. 

Certo, le donne e lo stato non sono gli unici attori coinvolti nel welfare: c’è anche il terzo settore, il mercato dei servizi di cura privati, le aziende attive nei servizi per la conciliazione. Né va trascurato che in tutti i servizi di cura esternalizzati la forza lavoro impiegata sia soprattutto femminile. 
Quello che va attentamente valutato è come dosare questo mix, che al momento rimane ancora molto, troppo, sbilanciato sull’impegno familiare delle donne. 

Per chi ha a cuore il Welfare, bisogna dire che questi sono anni molto difficili. Vi è la consapevolezza  di un progressivo aumento dei bisogni di cura (l’incremento del numero di anziani sta facendo esplodere il nostro equilibrio demografico) e al contempo una costante ritirata da parte dello Stato dal Welfare, non solo in termini finanziari, ma proprio in termini di responsabilità politica. Nel rimpallo di competenze tra Stato centrale ed Enti locali la riduzione dell’intervento pubblico è infatti particolarmente evidente per i servizi sociali e di cura.  
Non che prima si scialasse, eh, ma certamente in questi ultimi anni la situazione è andata progressivamente a peggiorare.

E’ solo un problema di risorse? In uno Stato che ogni anno ha entrate per 500 e rotti miliardi di euro mancano davvero i soldi per gli asili nido, l’assistenza sociale, il reddito minimo di inserimento, l’assistenza domiciliare, i servizi di doposcuola, ecc? Tra l’altro i soldi per questi servizi sono sempre mancati, anche quando si sperperava il possibile creando uno dei più elevati debiti pubblici al mondo. Non sarà dunque una questione di senso, di priorità e di valori?  

Direi proprio di sì. Allora, visto che lo Stato si sta tirando indietro dalla responsabilità politica del welfare, dobbiamo chiederci come e se cambierà il ruolo di donne e uomini in futuro. Chi si occuperà dei bambini e degli anziani, della montagna di lavoro di cura necessaria per curare una popolazione sempre più longeva? Gli uomini si impegneranno di più nel lavoro di cura? Il Welfare sussidiario e di secondo livello crescerà al punto da compensare le carenze di quello pubblico? Lavorare per le donne diventerà un lusso solo per quelle meglio pagate che si potranno permettere i servizi di cura privati? 

Vedremo. Certo fare due conti sul fabbisogno di cura e valutare con quali agenti del Welfare soddisfarlo sarebbe necessario, ma forse non ci piacerebbero le risposte. 

Noi qui a Ladynomics tifiamo per un welfare pubblico, certo più efficiente di quello attuale, ma pur sempre pubblico. Finanziato dalle tasse di tutti, anche quelle pagate con il nostro lavoro. Solo questa soluzione può infatti garantire a tutte le donne, di qualsiasi livello sociale e di ogni livello di istruzione, di accedere al mercato del lavoro e alla vita pubblica, raggiungendo l’indipendenza economica.
Di godere di pari opportunità non solo rispetto agli uomini ma anche tra le donne stesse e tra le diverse generazioni. 

Quindi, lunga vita al Welfare pubblico! ​