Certo che questa storia del Coronavirus è proprio una situazione assurda, se ci pensiamo. In una città remota della Cina viene acquistato in un mercato locale un animale selvatico (pippistrello? pangolino? serpente?), viene portato a casa, ripulito, cotto e mangiato. Pare che in queste operazioni chi abbia cucinato l’animale si sia tagliato e contaminato con il sangue infetto dell’animale, diventando così il paziente zero di un virus che sta terrorizzando tutto il mondo.
Si poteva evitare questa epidemia da Coronavirus? Sì.
Gli epidemiologi ci hanno spiegato come il devastante intervento dell’uomo sull’ambiente (deforestazioni e cementificazione) porti degli squilibri all’ecosistema che produce migrazioni anomale di animali ed enormi problemi per le persone a trovare cibo proteico in molti paesi, nei quali si finisce con il mangiare tutto quello che si trova, animali selvatici compresi. Questo vale per molti paesi in condizioni di grave povertà ancora oggi ma vale anche per paesi come la Cina nella quale sopravvivono abitudini alimentari come quella di cibarsi di animali selvatici, ereditate da un passato poverissimo.
Le falle dei sistemi sanitari nella sicurezza alimentare fanno poi il resto.
Questa dinamica di attività distruttive per l’ambiente a fini di mercato che finiscono con il mettere a repentaglio la salute della specie umana può essere riletta anche attraverso la prospettiva dell’economia femminista.
Alla base di queste teorie vi è infatti proprio la critica all’attuale sistema economico che non sarebbe più sostenibile a causa dello squilibrio tra il mondo della produzione e quello della riproduzione sociale.
Con il termine, lo ammettiamo, un po’ ostico, di riproduzione sociale, l’economia femminista indica infatti tutte le attività umane gratuite e quindi al di fuori del mercato retribuito: il lavoro familiare e domestico, la cura e l’accudimento di bambini e anziani, l’alimentazione, la produzione del benessere materiale, emotivo e sociale, la tutela della salute. Tutte attività della nostra vita che non solo sono alla base di “tutto quello per cui vale la pena di vivere e che il PIL non è in grado di misurare” (come disse Robert Kennedy in un celebre discorso del 1968), ma che rappresentano anche il pilastro sul quale si appoggia l’economia retribuita.
Senza riproduzione sociale, la produzione e il mercato non sarebbero infatti più sostenibili.
Banalmente: niente forza lavoro né consumatori se nessuno fa bambini, niente forza lavoro qualificata e in grado di lavorare se nessuno la nutre, la educa, la alleva, ne tutela la salute, la protegge da un ambiente malsano.
La riproduzione sociale offre quindi una prospettiva che le varie teorie dell’economia capitalista, centrate invece solo sulle dinamiche produttive del mercato, hanno sempre ignorato, tanto meno considerato o valorizzato.
Essendo inoltre soprattutto donne quella parte di umanità specializzata nella riproduzione sociale oltre che in quella biologica, si è poi venuto a produrre un “gender bias”,
una distorsione della lettura economica, che nasconde degli squilibri di sistema importanti, non solo nella parità di genere ma anche nelle disuguaglianze sociali, minando anche le potenzialità di crescita dei paesi.
L’economia femminista sostiene infatti che il capitalismo considera solo una parte delle attività umane, quelle della produzione e dunque retribuite, conteggiate nel famigerato “PIL”, e di ignorare invece tutte quelle attività di riproduzione sociale legate al benessere delle persone, gratuite e svolte dall’alba dei tempi soprattutto dalle donne, creando quindi un’incapacità del sistema di vedere una parte fondamentale della nostra vita anche dal punto di vista economico.
Oggi sappiamo infatti quanto PIL mondiale nascosto produca il lavoro non retribuito, e quanto valore aggiunto produrrebbe per la nostra società se venisse considerato.
Soprattutto, però, cominciamo a vedere quanto ci costino gli squilibri tra produzione e riproduzione come nel caso del Coronavirus.
Il fatto che una sola persona di Wuhan (una donna?), probabile prima vittima, non solo scateni una pandemia planetaria semplicemente andando al mercato e cucinando, ma che metta a repentaglio anche l’economia mondiale, inclusi colossi multinazionali come Apple, ci ricorda quanto il capitalismo globalizzato sia in realtà fragilissimo, poiché troppo indifferente alle dinamiche di interdipendenza tra il mondo della produzione e quello della riproduzione sociale.
Ignorando le esigenze del mondo della riproduzione sociale, il mondo della produzione può così scatenare tutti i propri “animal spirits”, sentirsi superiore agli Stati, usare il patrimonio e il capitale come clava per comprimere sempre di più il fattore lavoro, tra licenziamenti, social dumping e condizioni di lavoro inumane. Può distruggere aree ambientali enormi ed ecosistemi, può seguire l’utopia dell’autosufficienza con l’intelligenza artificiale che sostituisce completamente le persone. Si tratta in fondo di un delirio di onnipotenza di quel patriarcato, oramai degenerato, che ha creato un’economia a propria immagine e somiglianza, con i propri valori di conflitto e di distruzione per la competizione estrema per le risorse.
Poi però, come abbiamo visto con il coronavirus, il sistema complessivo non tiene, perché produzione e riproduzione sociale devono sempre stare in equilibrio,
altrimenti succede qualcosa, che sia un’epidemia, una guerra, un cambiamento climatico irreversibile o una rivolta popolare, che scombina i giochi e obbliga, volenti o nolenti, a prendere atto della verità e di quanta importanza abbia la riproduzione sociale per il benessere umano ed economico globale.
Quindi anche un gigante come la Cina, che tanto ha compresso il benessere e la salute delle persone per la propria crescita economica (come in passato hanno peraltro già fatto i paesi occidentali), si ritrova un giorno a dover fronteggiare una crisi enorme in termini di vite umane e di costi economici a causa di questo squilibrio.
Il Coronavirus nasce infatti da squilibri demografici, economici ed ambientali, da una falla del sistema di sicurezza alimentare, da un insufficiente sistema sanitario, dalle dannose abitudini alimentari della popolazione cinese. Dalla scarsa attenzione, insomma, per quelle politiche pubbliche dedite a favorire il benessere generale, la riproduzione sociale e alla tutela della salute.
Più che un campanellino di allarme questa vicenda dovrebbe suonare quindi come una bella sveglia per tutti.
Quali soluzioni politiche ed economiche si potrebbero però adottare perché in futuro non ci siano altri Coronavirus?
Le teorie dell’economia femminista ci offrono, ahimè, un’unica risposta, che è quella di maturare una differente prospettiva e un nuovo paradigma che accolga nella teoria economica di mercato anche i valori e i principi della riproduzione sociale.
Per arrivare a questo risultato è però indispensabile lasciare spazio a classi dirigenti con tante donne con un approccio femminista in grado di far comprendere l’importanza di tradurre in discorso politico e pubblico quelle capacità di cura familiare e privata che le donne hanno esercitato per secoli.
Non è un caso, infatti, che, ad esempio, se aumentano le donne in politica migliori la salute dei cittadini al punto da ridurre il tasso di mortalità.
Che siano di sinistra o di destra, il know how sulla riproduzione sociale viene infatti tramandato tra donne da millenni.
Si tratta pur sempre di quelle stesse attività di cura che tuttora rappresentano una gabbia di regole e stereotipi dannose per la libertà e la crescita delle donne ma che, ironia della sorte, costituiscono in questo momento storico anche un insieme di capacità, valori e principi che sarebbero indispensabili per il benessere di tutti.
Si tratta, insomma, di valorizzare le capacità delle donne per ricondurre il patriarcato e il capitalismo oramai degenerati ad una dimensione umana attraverso i valori della riproduzione sociale, di migliorare l’azione degli Stati e gli strumenti di politica pubblica per impedire alle logiche distorte del mercato di sterminarci tutti, che se non stiamo attenti un giorno di questi sono capaci di riuscirci veramente.
A pensarci, ne converrete, non è poi così difficile. Una cosuccia, vero?
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