La COP29 (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) che si è svolta a Baku dall’11 al 22 novembre si è chiusa con risultati contradditori ma ha almeno riconosciuto la centralità del genere nella lotta alla crisi climatica. Malgrado questo riconoscimento, rimangono ancora troppe criticità relative all’inclusione delle donne nell’azione contro la crisi climatica, soprattutto considerato che le donne e le ragazze sono le più colpite dagli effetto della crisi climatica. Per esempio, per ogni aumento di un grado delle temperature medie, le contadine perdono il 24% in più del loro reddito rispetto agli uomini.
Per questo motivo, da più parti è stata sollevata la necessità di una finanza climatica che sia attenta al genere, come affermato da Ayshka Najib, co-fondatrice di Fridays For Future MAPA e membro della coalizione Generation Equality Feminist Action for Climate Justice: “una finanza climatica attenta al genere deve anche garantire equità e la protezione delle persone che sono maggiormente colpite dalla crisi climatica, invece di non proteggerle”. Se le donne sono più vulnerabili, devono anche ricevere fondi adeguati a contrastare gli effetti negativi della crisi climatica.
Tuttavia, alla COP29, dopo anni in cui il termine “genere” è stato ampiamente usato nei documenti ufficiali, in un aggiornamento proposto durante la COP29 al Piano per l’uguaglianza di genere “i paesi africani e dell’Unione Europea hanno incluso una frase che riconosce le diverse esperienze che il cambiamento climatico può avere in base a “genere, sesso, età e razza” con quindi un approccio intersezionale al tema, a cui si sono opposti il Vaticano, l’Egitto, l’Iran, la Russia e l’Arabia Saudita, che hanno chiesto la rimozione del termine “genere” scatenando una serie di proteste.
Ma al di là di questa opposizione su questioni di base, dalla COP29 sono ancora una volta emerse altri problemi: innanzitutto le donne sono ancora ampiamente sottorappresentate nel processo decisionale sul clima. Infatti, nella COP28, nel 2023, le donne erano solo 15 su 133 di tutti i/le leader mondiali che hanno partecipato alla conferenza, e il 34% delle delegazioni nazionali. Uno squilibrio che peraltro è sostanzialmente invariato da circa 10 anni e che quindi non accenna a migliorare, malgrado le donne siano in generale più attente al clima, anche in politica, in cui, come raccontiamo nel nostro libro, Signora economia,
[le donne] giocano un ruolo cruciale per cambiare l’approccio al cambiamento climatico, infatti l’83% delle candidate alle elezioni nei parlamenti nazionali, contro il 75% dei colleghi uomini, ritengono necessarie misure più incisive per la protezione dell’ambiente, mentre i paesi con una maggiore presenza di donne in parlamento hanno più probabilità di ratificare trattati internazionali sul clima. (p. 121)
Infine, è necessario il riconoscimento del legame tra crisi climatica e lavoro domestico e di cura non pagato: sappiamo che la quantità di tempo che donne e ragazze trascorrono nel lavoro di cura non retribuito aumenterà a causa della scarsità di risorse dovuta alla crisi climatica e questo problema riguarda soprattutto le donne e le ragazze nel Sud del mondo, che trascorrono molte ore del proprio tempo a raccogliere acqua o combustibile.
Se la centralità del genere per la lotta alla crisi climatica non è pienamente riconosciuta e finanziata al di là delle dichiarazioni di principio, è importante sottolineare che le donne sono già in prima linea contro il cambiamento climatico come attiviste: basta guardare alle giovani leader dei movimenti globali per il clima, come Greta Thunberg e Vanessa Nakate. Recentemente in Svizzera un gruppo di donne anziane, le KlimaSeniorinnen (Anziane per il clima) hanno fatto causa al proprio governo (vincendo!) presso la Corte europea dei diritti umani, accusandolo di aver violato i loro diritti umani con la mancata attuazione di politiche incisive nei confronti del riscaldamento globale.
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