Gli Usa ultimamente ci danno grandi soddisfazioni: trapela la bozza della decisione della Corte Suprema americana di rovesciare RoeVsWade, che, se confermata, metterebbe in grave pericolo il diritto all’aborto e arriva la notizia della scarsità di latte artificiale per i bambini e le bambine che invece sono nati – di cui diciamolo, importa molto meno di un “bambino mai nato”.
E qui arriva la geniale soluzione: madri! allattate al seno, che ci vuole. Ora, a parte che se si nutrono i propri figlie e figlie con il latte artificiale, la produzione di latte materno – qualora ci fosse stata e qualora fosse stata sufficiente a nutrire il pargolo/a – non è un rubinetto che si apre e si chiude, e quindi non ci si può mettere ad allattare al seno o a riallattare come se nulla fosse. Questa soluzione – che ignora le più basiche nozioni di fisiologia, ma, quando si tratta del corpo delle donne evidentemente è tutto un mistero – è tipica dell’economia neoliberista: soluzioni private per problemi sistemici, o meglio: arrangiatevi.
Dire “tenete duro ed intanto allattate al seno” ignora anche il fatto che allattare è di fatto un lavoro, che richiede per i primi sei mesi di vita tra le 17 e le 20 ore a settimana, che comporta costi non indifferenti e che dovrebbe avvenire in un contesto, gli Stati Uniti, in cui non esiste un sistema di sanità pubblica, e in cui non esiste il congedo di maternità pagato; una madre statunitense su quattro ritorna al lavoro dopo 2 settimane dal parto – una condizione certamente non favorevolissima all’allattamento al seno. Le stesse autorità sanitarie statunitensi lo sanno benissimo: il 75% delle madri negli Stati Uniti inizia ad allattare al seno, ma alla fine dei sei mesi raccomandati di allattamento esclusivo, i tassi di allattamento al seno scendono al 43% e solo il 13% dei bambini viene allattato esclusivamente al seno. I tassi sono ancora più bassi per le minoranze etniche – che spesso hanno lavori con meno garanzie che difficilmente consentono alle madri di potersi prendere il tempo di tirare il latte sul posto di lavoro.
Se finalmente il paese decidesse per congedi di maternità pagati, ci sarebbero numerosi benefici, tra i quali probabilmente un aumento dei tassi di allattamento al seno, che comporterebbe risparmi a livello familiare: negli USA si risparmierebbero circa 1.200 –2000 dollari.
Ma al di là del risparmio per le famiglie, è a livello macroeconomico che alti tassi di allattamento esclusivo al seno potrebbero avere effetti economici positivi:
i benefici del latte materno sulla salute di madri e bambini si traducono infatti in una migliore salute collettiva e in risparmi ingenti per i sistemi sanitari nazionali. Uno studio del 2010 rileva che se il 90% delle famiglie americane nutrisse per sei mesi un bambino/a solo con latte materno il paese risparmierebbe 13 miliardi di dollari all’anno e potrebbe prevenire circa 911 morti all’ anno.
Non solo, negli USA gli effetti positivi dell’allattamento sulla riduzione del rischio di ammalarsi di cancro al seno comporterebbero un risparmio che potrebbe ammontare fino a 4 miliardi di dollari all’anno. In Gran Bretagna si stima che raddoppiare il numero di madri che allattano al seno per circa 7-18 mesi possa far risparmiare al sistema sanitario almeno 31 milioni di sterline. In Italia, uno studio del 2006 su 842 neonati ha rilevato che i bambini allattati esclusivamente al seno per tre mesi costano al sistema sanitario 20 euro in meno per spese ambulatoriali rispetto ai bambini allattati solo parzialmente o esclusivamente con latte artificiale; la differenza sale a 120 euro in termini di cure ospedaliere.
Sono talmente tanti i benefici economici legati all’allattamento al seno, specie nel lungo periodo, che uno studio australiano ha proposto di includere la produzione di latte materno nel PIL, stimando il valore della produzione a 3 miliardi di dollari all’anno in Australia, 110 negli USA, e 1 miliardo in Norvegia. Julie Smith, l’autrice dello studio, sostiene che non attribuendo un valore economico al latte materno implicitamente non gli diamo alcun valore, e che l’invisibilità dell’allattamento al seno nell’ economia e nel sistema di produzione del cibo sia parte della sottovalutazione del contributo delle donne all’economia.
Aggiungiamo anche che l’allattamento al seno ha dei costi, che sono più difficili da stimare poiché non possono essere imputati direttamente ed esclusivamente all’allattamento al seno ma a un insieme di scelte, obbligate o meno, di cui l’allattamento è solo una componente. Innanzitutto in termini di tempo delle madri: soprattutto dei primi periodi di vita del neonato/a si passa moltissimo tempo ad allattare, e poi, ci sono i costi economici: uno studio americano ha rilevato che
le donne che allattano a lungo hanno un reddito minore nei primi cinque anni di vita dei propri figli rispetto alle madri che allattano con il latte artificiale, principalmente perchè le prime passano meno tempo nella forza lavoro, o perchè lavorano per meno ore.
Come rilevato anche dagli autori dello studio, è difficile sapere esattamente quanto il solo allattamento abbia pesato sulla situazione e quanto lavorare meno sia stato il frutto della decisione di stare di piu’ con i propri figli oppure la conseguenza di un ambiente di lavoro che può essere poco accogliente nei confronti delle donne che allattano.
In conclusione: l’allattamento al seno ha effetti positivi sulla salute di madri e bambini ed in più il bonus di tradursi in un potenziale risparmio per le economie nazionali; tuttavia, per le madri l’allattamento al seno non è gratis, anche se i costi sono difficilmente quantificabili. Rendere l’allattamento al seno più visibile (come proposto da Julie Smith) includendone il valore della produzione nel PIL, significherebbe dargli maggiore importanza agli occhi dei policy makers, che potrebbero investirci maggiori risorse economiche. Tuttavia, la promozione dell’allattamento al seno non deve essere fatta sulla pelle delle donne: se l’obiettivo è desiderabile, bisogna creare le condizioni perché chi vuole possa cominciare e proseguire ad allattare, minimizzandone i costi sostenuti a livello personale.