L’ondata di orrore collettivo che sta attraversando l’Italia per il femminicidio di #GiuliaCecchettin in queste ore ci sta restituendo, in modo amplificato e moltiplicato, quel senso di impotenza di fronte a tanta mostruosa e crudele disumanità.
Anche noi qui a Ladynomics siamo addolorate e tramortite.
Vorremmo però staccarci dal copione mediatico che si ripete sempre più frusto e frustrante in queste ore e cominciassimo a dirci delle verità sgradite, ma reali, che di solito si lasciano non a caso sullo sfondo del dibattito pubblico.
I femminicidi sono la punta dell’iceberg della violenza di genere, che non è solo parte integrante della nostra società, ma anche strumento degenerato di controllo sociale per un sistema economico basato sulla competizione.
Per sconfiggere la violenza di genere ci vuole quindi un cambiamento culturale massivo, totale, trasversale, permanente, pervasivo, strutturale. Come fare?
Non dobbiamo inventarci nulla, sta tutto già scritto, quasi scolpito su pietra, nella Convenzione di Istanbul del 2011, che l’Italia ha ratificato nel 2013. La ricetta per il cambiamento culturale, gli strumenti, le metodologie: tutto è già lì, articolo per articolo, ci ha studiato per anni una quantità indefinibile di esperte, basta eseguire.
Cosa stiamo aspettando, quindi? Risorse adeguate.
Non esiste infatti alcuna possibilità di cambiamento strutturale, di qualsiasi tipo, senza un cospicuo, significativo, impattante, considerevole investimento di risorse.
Quando si parla di prevedere la formazione sentimentale nelle scuole, di formare le forze dell’ordine, di assumere più assistenti sociali, rafforzare i centri antiviolenza, mettere più psicologi nelle scuole o negli ospedali, fare campagne social e di sensibilizzazione, tutto questo costa.
Se non si allocano risorse adeguate per la prevenzione della violenza, non si sta quindi facendo sul serio nel promuovere il cambiamento culturale.
Per valutare quanto le politiche di genere siano davvero volute e non solo enunciate per un facile consenso, la guru mondiale di gender budgeting, Diane Elson, dice sempre “follow the money”. Seguite i soldi. Se la politica non ci mette i soldi, non sta facendo sul serio. E quindi capiamo che la politica fa molto sul serio quando spende 109 miliardi di euro in incentivi edilizi, ma sta invece facendo melina, ad essere generosi, quando, secondo il rapporto ActionAid, investe 248,8 milioni di euro in tre anni per la violenza contro le donne, dei quali l’80,9% per curare le donne vittime, e solo il 12,4%, pari a 30,9 milioni (si, avete letto bene, milioni), in prevenzione, che dovrebbe finanziare il cambiamento culturale sistemico e strutturale.
Chi lavora nei centri antiviolenza e nelle ONG conosce molto bene la frustrazione di chiedere risorse alle varie istituzioni, dai Comuni, alle Regioni fino ai Ministeri, e sentirsi rispondere sempre che i soldi non ci sono, ma poi se ne trovano in un lampo e in quantità inaudite per altre iniziative ben più gradite ai vari elettorati. Per non parlare delle risorse pubbliche spese a sproposito, o quelle manco riscosse dell’evasione fiscale.
La politica metterà però risorse adeguate sulla prevenzione della violenza di genere solo quando capirà che questa decisione è apprezzata dall’elettorato.
Oramai lo vediamo ogni giorno, quanto le decisioni politiche siano guidate non solo dal voto, ma anche dalla promessa di voto descritta dai sondaggi. Quindi, per finanziare il cambiamento culturale che tanto desideriamo, abbiamo bisogno che una quantità considerevole di elettrici ed elettori scelgano di votare partiti, di qualsiasi colore, che promettano in modo serio questo tipo di spesa. Sottolineo di qualsiasi colore perché, ad oggi, non si è ancora visto alcun partito fare una simile promessa in modo serio, preciso e quantificato. Ad esagerare si sono fatti velati accenni, subissati da altre promesse evidentemente ben più attrattive: il lavoro, le pensioni, la sicurezza, ecc.
Se queste promesse di cambiamento radicale non ci sono mai state, seriamente, da parte di nessun partito, è perché, ad oggi, diciamocelo con franchezza, non pagano elettoralmente
e la violenza di genere al momento del voto non è un problema poi così sentito nella pancia profonda e maggioritaria del paese, di donne e di uomini. Guardate, non piace neanche a noi ammetterlo, ma dobbiamo dircelo per affrontare la realtà e trovare una soluzione.
Quindi sì. C’è ancora tanto da fare. Dobbiamo lavorare ad un cambiamento culturale nel nostro paese, ma è il momento di cominciare a farlo seriamente, fuori da estremismi, populismi ed altro fumo negli occhi. Rafforziamo allora la nostra democrazia, lavoriamo sull’astensionismo, recuperiamo elettrici scoraggiate e costruiamo su questo tema il consenso reale del voto, non quello estemporaneo urlato sui social o sui media.
Solo in questo modo #GiuliaCecchettin e tutte le altre non saranno morte invano.
Foto di Nadine Shaabana su Unsplash