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La campagna Wages for Housework è più rilevante che mai

di Federica Gentile | 13 Marzo 2023

Questo post è la traduzione in italiano dell’articolo The Wages for Housework Campaign Is As Relevant As Ever di Sophie K Rosa, pubblicato da Novara Media.

We thank Novara Media for the permission to translate this article in Italian.

“Ehi, ragazzi! Potete permettervi per 48.000$ di assumere queste donne? Perché è questo che vale una casalinga. Così recita il titolo di un’edizione degli anni ’70 del quotidiano statunitense National Enquirer. Il calcolo citato nell’articolo tiene conto dei numerosi lavori che tipicamente svolgono le casalinghe, tra cui badante, donna delle pulizie, cuoca, lavapiatti, infermiera e consulente familiare. 

Il 2022 ha marcato il 50° anniversario della campagna “Wages for Housework” (WfH-Salario per il lavoro domestico), un movimento internazionalista, anticapitalista e femminista che rifiuta un ordine economico in cui il lavoro domestico essenziale delle donne non viene riconosciuto, sottovalutato, non remunerato o sottopagato. 

La campagna WfH ha portato una nuova e potente prospettiva al movimento femminista, sia in Gran Bretagna che nel resto del mondo, una prospettiva che i suoi organizzatori originari, riflettendo sulle loro esperienze con Novara Media, sostengono sia quanto mai urgente. 

Abbiamo dovuto inventare uno stile di politica completamente diverso.

La campagna WfH è stata lanciata dal Collettivo femminista internazionale alla Conferenza femminista internazionale del 1972 a Padova, in Italia. Nel giro di due anni, la campagna ha tenuto la propria conferenza internazionale a Brooklyn, New York, con gruppi WfH che si sono organizzati negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito, in Italia e oltre. “Le sedi di questi gruppi erano […] sbocchi creativi dove le donne imparavano a fare le cose più diverse”, spiega Mariarosa Dalla Costa, organizzatrice di WfH. 

 La campagna ha rotto con i vecchi modi di ‘fare politica’, ricorda con affetto un’altra organizzatrice del WfH, Leopoldina Fortunati: “La politica fatta dagli uomini era sostanzialmente noiosa […] abbiamo dovuto inventare uno stile totalmente diverso […] in cui ci fosse tanta gioia – la gioia di stare insieme alle altre donne, di superare l’isolamento nelle case”. 

Mentre WfH incorporava diverse prospettive e lotte, la richiesta unificante era chiara: che il lavoro di cura, svolto principalmente da donne, non è destino biologico o “amore”, ma – sotto il capitalismo – un lavoro che dovrebbe ricevere un salario.  

Questa affermazione era, ed è tuttora, radicale. Il lavoro non retribuito delle donne non è contabilizzato nel PIL di un paese e non è rispettato come “vero lavoro”. In effetti, è stato reso invisibile, afferma Selma James, attivista di WfH. 

 Il termine “lavoro domestico” a cui si riferiva la campagna fungeva da sinonimo per tutto il lavoro feminilizzato, dentro e fuori casa. Questo lavoro di riproduzione sociale – il lavoro che fa nascere nuovi lavoratori/lavoratrici e mantiene le persone in vita e abbastanza in buona salute da, a loro volta, lavorare (cioè fare sesso, nutrire e non ferire i sentimenti degli uomini) – non è stato riconosciuto nè dalla sinistra patriarcale nè dal movimento operaio. Le attiviste del WfH hanno deciso di cambiare questa situazione. 

Tutte le donne sono lavoratrici. 

La campagna del WfH insisteva sul fatto che tutte le donne erano lavoratrici che facevano girare gli ingranaggi del capitalismo e che tutte le case erano luoghi di lavoro. La richiesta di uno stipendio era, in parte, simbolica: ciò che contava era che il lavoro estenuante e ingrato delle donne fosse riconosciuto, in modo tale che le sue condizioni potessero essere combattute – e, alla fine, rifiutate. “La questione dei lavori domestici”, dice Dalla Costa, era “una questione che determinava la condizione di tutte le donne”.  

“Siamo insegnanti, infermiere, segretarie, prostitute, attrici, assistenti all’infanzia, hostess, cameriere, cuoche, donne delle pulizie e lavoratrici di ogni tipo”, si legge in un opuscolo WfH intitolato “AVVISO A TUTTI I GOVERNI”. “Abbiamo faticato mentre tu diventavi ricco. Ora rivogliamo indietro la ricchezza che abbiamo prodotto”. 

La campagna ha offerto una piattaforma alla lotta femminista militante contro l’oppressione delle donne. Si trattava di una prospettiva politica impegnata a – come scriveva nel 1975 l’organizzatrice di WfH Silvia Federici nel suo saggio “Wages Against Housework” – “demistificare e sovvertire il ruolo a cui le donne sono state confinate nella società capitalista”. Questa prospettiva ha permesso di riformulare la vita quotidiana delle donne come luogo della lotta politica: “Dicono che sia amore. Diciamo che è lavoro non retribuito. La chiamano frigidità. Lo chiamiamo assenteismo. Ogni aborto spontaneo è un incidente sul lavoro”. 

Una lotta su più fronti. 

Riconoscere il lavoro delle donne sotto il patriarcato capitalista come lavoro aveva implicazioni di vasta portata. In quanto tale, la campagna ha combattuto su molti fronti: campagne per rifugi per le donne e diritti delle sex workers, liberazione delle lesbiche e assistenza all’infanzia gratuita, autonomia riproduttiva e libertà sessuale, alloggi a prezzi accessibili e fornitura di trasporti pubblici.  

Come afferma Dalla Costa: “La domanda di un salario per il lavoro domestico, anzitutto, offriva una prospettiva che consentiva un nuovo modo di avviare o formulare tutta una serie di lotte che si svolgevano nei nostri quartieri, nelle nostre case, ma anche negli ospedali, nelle fabbriche [e] nel settore dei servizi. Queste lotte rappresentavano l’articolazione sociale della domanda di salario per il lavoro domestico”. 

Guardare all’autonomia riproduttiva dal punto di vista di WfH, ad esempio, ha permesso che la liberazione nella sfera domestica diventasse parte della lotta anticapitalista. Articolando questo concetto, un opuscolo riportava: “Quando hanno bisogno di più lavoratori, a noi donne è proibita qualsiasi forma di contraccezione […] Quando i lavoratori che produciamo non sono abbastanza disciplinati, o quando richiediamo dei soldi per il costo di allevarli – cioè, quando NOI non siamo abbastanza disciplinate, ci sterilizzano”. 

Riconcepire la casa come luogo di lavoro significava anche che la violenza domestica poteva essere compresa nel contesto dello sfruttamento capitalistico di uomini e donne. In “Wages Against Housework”, Federici ha collegato lo sfruttamento degli uomini sul lavoro allo sfruttamento e alla violenza contro le donne all’interno della casa, sostenendo che la massificazione delle modalità individuali di resistenza ben affinate delle donne nella lotta di classe era cruciale per il movimento femminista: 

“Picchi tua moglie e sfoghi la tua rabbia contro di lei quando sei frustrato o stanco del tuo lavoro o quando sei sconfitto in una lotta (entrare in una fabbrica è di per sé una sconfitta). Più l’uomo serve e viene comandato, più comanda […] (Le donne hanno sempre trovato il modo di reagire, o vendicarsi, ma sempre in modo isolato e privatizzato. Il problema, quindi, diventa come portare questa lotta fuori dalla cucina e dalla camera da letto e nelle strade.)” 

Rendere visibile l’invisibile. 

La prospettiva della WfH si scontrava con altri filoni del femminismo che insistevano sul fatto che la liberazione delle donne dipendesse dal loro ingresso nel mercato del lavoro, lasciando i “lavori domestici” a lavoratrici domestiche a basso reddito, spesso donne razzializzate. Piuttosto che “risolvere” il patriarcato inserendo più donne in ruoli più remunerati fuori casa – lasciando inevitabilmente la maggior parte delle donne a continuare il lavoro non retribuito o a basso salario – la campagna ha insistito sul fatto che il lavoro che le donne stavano già svolgendo doveva essere riconosciuto, rispettato e ricompensato. La richiesta [di un salario per il lavoro domestico] ha agito come un meccanismo attraverso il quale rendere visibile il lavoro femminilizzato in modo che potesse essere efficacemente combattuto – al fine, in ultima analisi, di costruire un futuro femminista in cui il lavoro di cura sarebbe stato collettivizzato. 

In generale, nella sinistra radicale, “la questione delle donne era completamente ignorata”, dice Fortunati. Il movimento femminista aveva compreso che riconoscere il lavoro domestico come lavoro “era fondamentale per iniziare una rivoluzione [che mettesse al centro la] prospettiva politica delle donne”. Anche Dalla Costa è stata attirata da WfH dopo aver riconosciuto che il femminismo era in gran parte assente dai gruppi politici militanti con cui si stava organizzando: “Mi sono resa conto che mentre stavo combattendo con tutto quello che avevo per vari temi, ne mancava uno: le donne .” 

Il femminismo di WfH ha sfidato lo sciovinismo capitalista che, nonostante fosse “realmente dipendente dal lavoro [delle donne] […] ha negato che [il lavoro domestico] fosse lavoro”, dice James. Nel loro saggio ‘Counter-Planning from the Kitchen: Wages for Housework – A Perspective on Capital and the Left’, Federici e Nicole Cox sostengono: “Da quando la sinistra ha accettato il salario come linea di demarcazione tra lavoro e non lavoro, la produzione e il parassitismo, il potere potenziale e l’impotenza, l’immensa quantità di lavoro non salariato che le donne svolgono per il capitale in casa è sfuggito alla loro analisi e strategia. Questa prospettiva, affermano, «è funzionale al nostro asservimento in casa, che, in assenza di salario, è sempre apparsa come un atto d’amore». 

Una campagna internazionale e intersezionale. 

In un modo o nell’altro, la causa di WfH era rilevante per le donne di tutto il mondo e l’internazionalismo della campagna era una fonte centrale del suo potere, afferma James. Mentre il movimento delle donne, in generale, comportava “una sorta di provincialismo che era inevitabile [perché le donne erano isolate]”, la campagna ha cercato di facilitare l’organizzazione tra le donne di tutto il mondo. “Abbiamo speso molti dei nostri soldi per chiamate internazionali; avevamo poche risorse ma le abbiamo messe nelle telefonate”, dice. “Non sarebbe potuta esistere campagna antirazzista a meno che non fosse internazionale”. Per gli organizzatori del Nord del mondo, continua, era fondamentale riconoscere “l’enorme lavoro che [le donne stavano facendo] nel Sud del mondo”, dato che si trattava di giornate lavorative di “16, 17 ore”. 

Nel vocabolario odierno, la campagna WfH potrebbe essere intesa come un’aspirazione a praticare l'”intersezionalità”. Pur riconoscendo l’oppressione condivisa, le organizzatrici tendevano a dare importanza alle molteplici identità delle donne e al modo in cui tali identità differenziavano le loro lotte. “Ogni donna che ha partecipato alla campagna ha portato la sua storia ed è così che ci siamo educate”, afferma James. 

In questo contesto, attorno alla campagna centrale iniziarono a formarsi gruppi autonomi. L’International Black Women for Wages for Housework, fondata nel 1975, si descriveva in un opuscolo come “una rete di donne nere/del terzo mondo che reclamano riparazioni per tutto il loro lavoro non salariato, inclusa la schiavitù, l’imperialismo e il neocolonialismo”. Il gruppo ha aggiunto che “stava facendo una campagna su welfare, controlli sull’immigrazione, illegalità della polizia, salute, stupro e violenza domestica, energia nucleare / armi e devastazione ecologica che integra il terzo mondo, le persone di colore, le donne e le questioni ecologiche”. 

Nel frattempo, Wages Due Lesbians, fondata nello stesso anno, ha evidenziato e combattuto contro le specifiche oppressioni subite dalle lesbiche, che non sempre sono state spiegate  nei modi in cui WfH è stato inquadrato. Il gruppo, ad esempio, ha espresso lotte condivise con le sex workers, scrivendo:

“In quanto donne lesbiche, noi, come le prostitute, ci rifiutiamo di accettare che sia nella ‘natura’ delle donne andare a letto con gli uomini e dormire con loro ‘per amore’ — vale a dire gratis. E come le prostitute, affrontiamo continue vessazioni da parte della polizia, dei datori di lavoro, delle scuole, dai singoli uomini e da tutti coloro che sono in posizioni di potere per il crimine di aver voluto modellare la nostra vita sessuale secondo i nostri bisogni, di pretendere qualcosa per noi stesse […] Donne, lesbiche o ‘etero’, prostitute o meno, sono ovunque le domestiche, le serve del mondo”. 
 
Le sex workers, a loro volta, hanno creato i propri gruppi autonomi, ad esempio l’English Collective of Prostitutes (ECP), che è stato fondato da due prostitute immigrate nel 1975 e si organizza ancora oggi con questo nome. L’ECP si è battuto per “l’abolizione delle leggi sulla prostituzione; per i diritti umani, legali e civili delle prostitute; e per maggiori benefici, borse di studio, stipendi e altre risorse in modo che nessuna donna sia costretta dalla povertà a fare sesso con nessuno”. Nel 1982, le attiviste dell’ECP occuparono una chiesa a King’s Cross, Londra, per protestare contro il razzismo e la violenza della polizia.  
Altri gruppi autonomi includevano il Women against Rape, che si batteva per la criminalizzazione dello stupro nel matrimonio, e WinVisible, un gruppo di “donne con disabilità visibili e invisibili che si battono per l’indipendenza economica, l’autonomia e la mobilità, l’alloggio e altre risorse per una vita indipendente, e contro tagli al welfare e ai servizi, contro il razzismo, lo stupro e l’inquinamento militare-industriale”. 

Questi gruppi intendevano affrontare le differenze tra le esperienze delle donne e, così facendo, occuparsi delle complicate dinamiche di potere nella campagna più ampia. 

Detto questo, anche mantenere un fronte unito era importante. A tal fine, i gruppi avevao identificato i punti in cui le loro lotte si sovrapponevano nel quadro di WfH per costruire solidarietà. Nel suo manifesto fondamentale “Fucking Is Work”, Wages Due Lesbians ha spiegato la lotta condivisa di casalinghe e lesbiche: 

“Wages for Housework riconosce che fare le pulizie, crescere i figli, prendersi cura degli uomini non è il destino biologico delle donne. L’essere lesbica riconosce che l’amore eterosessuale e il matrimonio non sono il destino biologico delle donne. Entrambi sono definizioni dei ruoli delle donne da parte dello stato e a vantaggio dello stato”. 

Questo spirito di solidarietà ha informato i principi chiave della campagna, afferma James: “se vuoi combattere, noi combatteremo al tuo fianco”, “prendi sempre in considerazione la lotta degli altri” e “non ci attacchiamo a vicenda”. Date le sue ambizioni, non sorprende che l’organizzazione politica del WfH sia stata “intensa”, afferma Fortunati. “C’erano così tante cose da fare per allargare e rafforzare il movimento”. Ciò includeva la co-scrittura, la pianificazione di eventi, dimostrazioni, assemblee pubbliche, volantinaggio e poster. “Ci siamo impegnate ogni giorno e abbiamo lavorato molto intensamente per un decennio”. 

Una cosa che ha reso WfH speciale, dice Dalla Costa, è il modo in cui la campagna ha unito “la formazione teorica con un serio impegno di militanza e azione politica”. Sebbene l’analisi fosse vitale, la campagna si è tenuta alla larga dal “dibattito accademico” per concentrarsi invece sulla “mobilitazione per istigare una trasformazione sociale che consenta alle donne di ridefinire se stesse e la loro condizione. 

“Il lavoro delle donne vale più di quanto il capitalismo potrebbe mai pagare”. 

Sebbene la campagna WfH alla fine non abbia ottenuto un salario concreto per il lavoro femminile non retribuito, non è mai stato questo il punto, afferma la ricercatrice femminista, organizzatrice, e madre Claire English. Sostiene che la campagna ha avuto successo in molti modi, in particolare ricordando alla gente che “il lavoro delle donne vale più di quanto il capitalismo potrebbe mai pagare”. WfH è stata, dice, “una chiave per aprire i nostri occhi su quanto sia completamente insostenibile la società quando si basa sulla capacità infinita delle donne”. Il fatto che molto probabilmente sia “impossibile sotto il capitalismo neoliberista” pagare le donne per il loro lavoro domestico “mette davvero a nudo il motivo per cui stiamo facendo questa richiesta in primo luogo”. 

Mentre il lavoro non retribuito delle donne è ancora sottovalutato e ad oggi non riconosciuto, c’è stato un riconoscimento più formale della sua esistenza dai tempi della WfH. Le Nazioni Unite hanno sostenuto l’importanza del lavoro non retribuito delle donne nelle analisi economiche nazionali nel 1985, scrivendo: “Il contributo retribuito e, in particolare, non retribuito delle donne a tutti gli aspetti e settori dello sviluppo dovrebbe essere riconosciuto e dovrebbero essere compiuti sforzi adeguati per misurare e riflettere questi contributi nei conti nazionali e nelle statistiche economiche e nel prodotto nazionale lordo. 

Più in generale – e probabilmente più importante – WfH ha contribuito a provocare un cambiamento nella coscienza femminista. Grazie alla campagna, il fardello e le angosce delle donne non sono più solo una questione privata: ora fanno parte del terreno politico. Per molte donne, questo è stato un cambiamento critico di prospettiva, che ha aperto possibilità di resistenza e trasformazione collettiva. 

Superare la frammentazione. 

Dagli anni ’70, il movimento femminista globale ha ottenuto molte vittorie nelle aree in cui WfH stava combattendo, inclusa l’autonomia riproduttiva. La campagna ha anche “aperto la strada a conversazioni su cose come UBI (reddito di base universale) perché si tratta di erogare denaro con cui le persone possono vivere senza che dover in cambio rendere conto di ogni loro mossa” afferma English. 

Ma mentre WfH ha creato nuovi termini per il femminismo, c’è molto lavoro da fare per recuperare il suo mandato radicale. Il femminismo liberale di oggi – in cui l’esistenza delle cosiddette girl boss amministratrici delegate è lodata come liberazione – è lontanissimo dalla politica radicale anticapitalista e femminista di WfH. Questo si è verificato dagli anni ’80, dice Dalla Costa, quando “il femminismo ha completamente cancellato le condizioni materiali dal suo vocabolario”.  

Tenendo presente questo aspetto, è fondamentale che il movimento femminista oggi trovi modi per superare questa frammentazione. Potrebbe essere utile trovare punti in cui le due ideologie si sovrappongono, dice English, che sottolinea il fatto che WfH è stato considerato “il primissimo riconoscimento del lavoro emotivo nella sfera domestica”. In questo modo, sostiene, si possono tracciare paralleli con il femminismo liberale, che è interessato ai modi in cui il “lavoro emotivo” sproporzionato delle donne spesso non viene riconosciuto. 

Il punto cruciale, quindi, dice English, è “convincere il femminismo liberale che il carico emotivo deve essere collettivizzato e che dobbiamo organizzarci contro di esso”, invece di perseguire solo soluzioni individualizzate attraverso, ad esempio, litigi tra coniugi e “esternalizzazione” del lavoro domestico alle donne più povere e razzializzate. 

“Un invito a fare di nuovo politica.” 

A 50 anni dal suo inizio, la campagna WfH serve come promemoria essenziale sul fatto che qualsiasi femminismo degno di questo nome deve essere per tutte le donne e incentrato sulla resistenza alle radici dell’oppressione – che risiedono nel capitalismo patriarcale – piuttosto che limitarsi a metterci una toppa. Gli anni ’70, secondo Dalla Costa, sono stati un’epoca caratterizzata da un “fermento sociale […] in cui tutto era possibile nella prospettiva della costruzione di un mondo migliore”. Se oggi potrebbe essere più difficile cogliere quell’ottimismo, «in un momento segnato dall’immiserimento della condizione femminile, in un contesto di inesorabile precarietà, bassi salari e venti di guerra», è quanto mai urgente e vitale che noi ci proviamo.  

E per di più, non è necessario ricominciare da capo. La campagna WfH – e la tradizione femminista radicale di cui fa parte – sopravvive in varie forme. Molti dei gruppi autonomi operano ancora, a volte con nomi diversi; Wages Due Lesbians, ad esempio, ora è QueerStrike. Nel frattempo, nel Regno Unito, il Global Women’s Strike e la Women’s Strike Assembly stanno combattendo sullo stesso terreno, concentrandosi sullo sciopero come modalità di resistenza. 

English ha organizzato con la Women’s Strike Assembly una serie di eventi “My Mum is on Strike”, “basati sulla visione del lavoro materno come una forma di lavoro che non deve essere concepito come naturale [per le donne], riconosciuto e collettivizzato”. Lo sciopero, come tattica, spiega – come la richiesta di salario – è un meccanismo che, nel suo fattore di interruzione e shock, chiama “le persone a guardare a quanto sia impossibile la situazione per le donne quando gran parte del funzionamento di base la società si basa su quanto si può estrarre dai nostri corpi e dalle nostre menti esauste”. 

Le organizzatrici originarie di WfH che hanno parlato con Novara Media sono unite nella convinzione che il movimento femminista di oggi debba guardare alla campagna per l’ispirazione rivoluzionaria. Nel suo 50esimo anniversario, WfH “è un invito a fare di nuovo politica”, dice Fortunati. Ciò significa centrare ciò di cui si trattava realmente la campagna, afferma James; creando “un mondo che comincia con la cura e non con lo sciacallaggio”. Per tendere a questo bisogna, come ha scritto Federici, “chiamare lavoro ciò che è lavoro affinché alla fine si possa riscoprire ciò che è amore”. 

Immagine Schlesinger Library, Radcliffe Institute/Bettye Lane