Lo scarsissimo valore che si dà al lavoro di cura svolto soprattutto dalle donne in casa si traduce in scarso valore dato al lavoro domestico e di cura pagato. Questa tendenza si rileva ovunque nel mondo, ma in Spagna (il paese europeo che impiega più lavoratrici domestiche a livello europeo) secondo un recente servizio della BBC Spain lockdown: How domestic workers became prisoners, la situazione è estremamente preoccupante.
Già in generale le condizioni lavorative per le lavoratrici domestiche sono spesso pessime – in Spagna (e non solo) le lavoratrici domestiche hanno meno diritti di altri lavoratori e lavoratrici – ma il lockdown ha esacerbato la situazione; un sindacato che si pone l’obiettivo di rappresentare le lavoratrici domestiche ha ricevuto le denunce di ben 100 donne che sono state tenute prigioniere nelle case dove normalmente vivono con i loro datori e datrici di lavoro. Nel servizio alcune delle lavoratrici raccontano che per cena non potevano mangiare ma potevano solo bere caffè, e che per mesi non sono potute uscire di casa.
Il lavoro domestico si svolge in un luogo privato, la casa, e quindi nascondere gli abusi è più facile; non solo, spesso le lavoratrici domestiche sono immigrate con uno status precario, non necessariamente parlano la lingua del paese in cui lavorano e non hanno una rete di supporto che le possa aiutare. Negli USA fece scalpore la pubblicazione qualche anno fa dell’articolo “My family’s slave”, che racconta di una donna filippina, Eudocia Tomas Pulido, tenuta schiava negli USA per decadi dalla famiglia per cui lavorava.
Queste notizie ci ricordano che la schiavitù non è stata ancora debellata, riguarda anche la civile Europa, e che il lavoro domestico è particolarmente a rischio; secondo dati ILO riportati da Anti Slavery, si stima che almeno 67 milioni di donne e uomini lavorino come lavoratori e lavoratrici domestiche nel mondo. L’80% sono donne e bambine.