Questa settimana è stato pubblicato il quarto Bilancio di Genere dello Stato ad opera del MEF. Un lavoro enorme i cui punti principali sono stati presentati in un’audizione in Senato, al quale è subito seguita una proposta di legge per rendere il Bilancio di Genere obbligatorio presso gli Enti Locali.
La sfida di queste due iniziative, che capitano nel mezzo di un dibattito mediatico e social(e) sul prezzo pagato dalle donne alla crisi, è quella di superare il muro della tecnica e della norma per entrare nella dimensione politica diffusa.
Non sappiamo ancora se tale sfida verrà vinta. Quello che è successo in Italia negli ultimi 18 anni, però, può insegnare molto: su questo tema, infatti, l’Italia vanta un’esperienza importante nel panorama europeo.
Il Bilancio di Genere in Italia ha una lunga storia iniziata nel 2002 che oggi vi racconto,
avendone vissuta una buona parte in prima persona come ricercatrice.
Grazie a due fantastiche donne che mi hanno dato l’opportunità, ho infatti avuto la fortuna nel 2002 di lavorare ad uno dei primi Bilanci di Genere in Italia, quello del Comune di Sestri Levante per la Provincia di Genova. Da allora per una decina d’anni ho fatto praticamente solo Bilanci di genere, un po’ da sola e un po’ in team, in tanti altri Comuni, Province, Regioni. dopo Genova, sono arrivati Torino, Roma, Milano, Firenze, Bologna, Alessandria, Prato, Savona, Siena, Aosta, Rimini, Arezzo, San Giuliano Terme, Cuneo, e poi la Regione Liguria, la Regione Piemonte, i progetti europei, della Rete Territoriale, dell’Isfol, di ReteCamere, dell’Università di Modena e Reggio Emilia e tanto altro ancora.
Dietro ai numeri, le tabelle e i conti, è nata poco a poco una magnifica comunità, fatta di Funzionarie, Dirigenti, Assessore (anche Assessori!), Consigliere, colleghe (tra le quali anche Federica Gentile! il Bilancio di Genere è stato galeotto per Ladynomics). Tante persone, conosciute in tutto questo pellegrinare, che attraverso i loro occhi mi hanno insegnato tantissimo sulle donne e gli uomini del nostro paese.
Mentre scrivevo questo post me le sono quindi riviste tutte lì, davanti, ed è stato magnifico. Prima quindi di iniziare con il racconto (lungo, perchè è una storia ricca, ma merita tutta, fidatevi) il mio più sentito grazie a tutte (e tutti!) per l’entusiasmante avventura vissuta assieme.
Come è iniziato il Bilancio di Genere in Italia – prime esperienze
Il Bilancio di Genere, sperimentato per la prima volta negli anni 80 e poi diffusosi in numerosi paesi, ha ottenuto un riconoscimento ufficiale di strumento a sostegno delle istituzioni per realizzare la parità di genere nell’ambito della Piattaforma d’Azione della IV Conferenza Mondiale delle donne di Pechino del 1995.
Nell’Unione Europea tale indicazione è stata accolta a partire dal 2001, grazie ad iniziative di promozione e sensibilizzazione, culminate nella prima Risoluzione del Parlamento Europeo nel 2003 alla quale ha contribuito significativamente la Relazione al Parlamento presentata dall’europarlamentare italiana Onorevole Fiorella Ghilardotti.
In Italia il Bilancio di Genere è stato introdotto pubblicamente per la prima volta nel 2001.
Dopo una prima conferenza tenuta sull’argomento a Roma nel 2000, si possono osservare le prime iniziative in Emilia Romagna, a livello regionale e nella Provincia e Comune di Modena a partire dal 2001, seguite nel 2002 dal Comune di Sestri Levante (promosso dalla Provincia di Genova) e dalla Provincia di Siena.
In Italia il Bilancio di Genere si è molto sviluppato soprattutto tra il 2003 e il 2010 con un processo bottom-up,
a partire dalle Province e i Comuni, prime amministrazioni che si sono impegnate nelle sperimentazioni, per proseguire poi con le Regioni e il Governo, oltre alle esperienze specifiche nelle Università e nelle Camere di Commercio.
Questo percorso di sviluppo rappresenta un unicum nel panorama europeo, dal momento che negli altri paesi il gender budgeting è sempre stato sperimentato a partire dal livello di governo nazionale. Tale specificità è stata individuata e rappresentata durante la prima Conferenza Europea sul gender budgeting del 2006, nella quale ho potuto presentare il caso Italiano come buona prassi nel panel di apertura.
Un altro riconoscimento importante per l’Italia a livello internazionale è stata la recente adozione dell’approccio delle capacità, già ideato e sperimentato a partire dal 2001 dall’Università di Modena e Reggio Emilia, nel primo e secondo studio di fattibilità di Bilancio di Genere dell’Unione Europea.
La rete territoriale del Bilancio di Genere in Italia
In considerazione delle prime tre sperimentazioni, nel 2002 è stato siglato, su iniziativa della Provincia di Genova, un protocollo di intesa assieme alle Province di Modena e Siena, finalizzato allo scambio di buone prassi e alla diffusione presso altri enti delle metodologie di analisi.
Le adesioni al protocollo sono poi progressivamente cresciute negli anni successivi, di pari passo con la diffusione delle iniziative di Bilancio di Genere, fino ad arrivare a comprendere, oltre alle tre fondatrici, le Province di Alessandria, Ancona, Ferrara, Firenze, La Spezia, Milano, Parma, Pesaro-Urbino, Torino, e i Comuni di Genova, Cuneo, Firenze, Rimini, Sestri Levante, Torino, per una popolazione complessivamente rappresentata di circa 10,5 milioni di abitanti.
La crescita delle adesioni alla rete si avvale di una intensa azione di disseminazione e di divulgazione promossa dalla Provincia di Genova prevista nell’ambito di un progetto europeo (GenderAlp! – Interreg 3b capofila Salisburgo) del quale è partner. Tra il 2006 e il 2007 questa attività di promozione sul territorio produce 21 tavoli tecnici e seminari, 25 conferenze, e la partecipazione con stand a 2 fiere nazionali.
Il censimento delle esperienze di Bilancio di Genere nei territori condotte ad oggi in Italia
Un censimento delle esperienze territoriali di Bilancio di Genere in Italia dal 2002 al 2018 mostra un totale di 138 amministrazioni territoriali, tra Comuni, Province e Regioni, che hanno promosso iniziative di Bilanci di Genere, in alcuni casi anche per più edizioni, con una forte concentrazione nelle Regioni dell’Italia Settentrionale e Centrale soprattutto nei primi anni e una graduale ma lenta diffusione più recente nelle regioni meridionali.
La velocità di diffusione del Bilancio di Genere vede un incremento dalle prime tre esperienze del 2002 alle 56 del 2009, un aumento significativo fino al 2013 e un sostanziale rallentamento fino al 2018. Tra il 2019 e il 2020 le esperienze territoriali di Bilancio di Genere si sono sostanzialmente arrestate, proseguendo solo in circa 4-5 amministrazioni.
Nel 2010 ReteCamere, su impulso delle previsioni normative del D.Lgs 27 ottobre 2009, n. 150 (Decreto Brunetta), ha inoltre promosso la formazione di linee guida per il bilancio di genere nelle Camere di commercio, alle quali sono seguite le prime cinque sperimentazioni territoriali.
A partire dal 2015 anche il mondo accademico inizia a sperimentare il Bilancio di Genere al suo interno.
A partire dal 2015, grazie anche all’impulso delle linee guida per le Università pubblicate sia dalla Conferenza Nazionale degli Organismi di Parità delle Università Italiane sia dal gruppo di coordinamento della CRUI, il Bilancio di Genere nelle Università italiane è sperimentato in più di 15 atenei e continua ancora ad essere oggetto di sperimentazione in diversi altri, non ultimo il progetto Europeo Horizon LeTSGEPs su questo tema, guidato dall’Università di Modena e Reggio Emilia. L’interesse del mondo accademico per il Bilancio di Genere è legato ad uno stimolo puntuale da parte dell’Unione Europea, poichè sia l’attuale programma di ricerca Europa Horizon 2020 che il prossimo, imminente, premiano l’utilizzo di simili strumenti per promuovere la gender equality.
L’inserimento del Bilancio di Genere nell’ordinamento italiano
In parallelo allo sviluppo delle sperimentazioni nei territori, anche il sistema normativo comincia a prevedere l’utilizzo del Bilancio di Genere. I sistemi normativi regionali sono i primi ad accoglierlo nella propria normativa, soprattutto all’interno delle Leggi Regionali sulle pari opportunità che vengono promulgate tra il 2005 e il 2010. Ad oggi risultano 11 regioni che hanno legiferato in tal senso: Emilia Romagna, Toscana, Piemonte, Liguria, Lazio, Puglia, Abruzzo, Calabria, Umbria, Friuli Venezia Giulia, Marche.
A livello nazionale il percorso di inserimento nella prassi e nella normativa italiana del Bilancio di Genere conosce diversi passaggi.
Grazie all’impegno politico della Rete Territoriale presso i referenti nazionali, un interessamento da parte dell’allora Sottosegretaria e quindi della Ministra per le Pari Opportunità porta nel 2007 ad un primo inserimento nel Bilancio di Genere nella Direttiva per la Pubblica Amministrazione (c.d Direttiva Pollastrini-Nicolais, G.U. n. 173 del 27.7.2007), “Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche”.
Pochi mesi dopo, a dicembre 2007, la Finanziaria 2008 (L. 24 dicembre 2007, n. 244) prevede una sperimentazione del Bilancio di Genere nazionale (Art.2, commi 481, 482, 483, 484) accompagnata da uno sviluppo delle statistiche di genere (Art.2, commi 485, 486, 487).
In parallelo all’evoluzione normativa, alcune sperimentazioni di caratura nazionale vengono promosse dall’allora ISFOL per supportare la normativa con strumenti tecnici adeguati. Una prima pubblicazione sviluppa una metodologia comune limitatamente all’utilizzo dei Fondi FSE, partendo dalle tre esperienze delle Province di Genova, Modena e Siena, alla quale segue un piano di fattibilità del Bilancio di Genere della finanziaria 2008.
Un anno dopo il Decreto Legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Decreto Brunetta) inserisce il Bilancio di Genere tra gli strumenti per migliorare le performance delle amministrazioni pubbliche che lo dovrebbero inviare al Ministero entro il 30 giugno di ogni anno. Il Decreto Brunetta rimane però inapplicato, dal momento che non prevede alcuna sanzione per il mancato rispetto di tale previsione e le amministrazioni, già oberate dalle altre norme previste dal Decreto, vi rinunciano.
La Legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Finanziaria 2010) prevede di nuovo la sperimentazione del Bilancio di Genere a livello nazionale all’art. 38 – septies. Tale indicazione viene attuata solo anni dopo grazie ad un DCPM del 2017 e ad una Circolare della Ragioneria dello Stato del 2019 che danno effettivamente l’avvio alle pubblicazioni annuali.
Intanto, a livello di Pubblica Amministrazione le prime indicazioni della Direttiva Pollastrini-Nicolais del 2007 in materia di Bilancio di Genere confluiscono negli aggiornamenti delle Direttive relative al funzionamento dei CUG, Comitati Unici di Garanzia. Ai CUG, istituiti presso ogni amministrazione pubblica dal DLgs n.165 del 2001 (art. 57), vengono attribuite poi nuove competenze con la Direttiva del 4 marzo 2011 del Ministro della Pubblica Amministrazione e delle Ministro per le Pari Opportunità, che cita il Bilancio di Genere all’interno dei compiti dell’organismo. Una indicazione più ampia e precisa è poi ancora inserita nella successiva Direttiva n. 2 del 2019
Perché il Bilancio di Genere si sviluppa in Italia soprattutto tra il 2005 e il 2010 nei territori.
Le numerose sperimentazioni di Bilancio di Genere tra il 2005 e 2010 sono sostenute da una serie di circostanze favorevoli che si verificano contemporaneamente.
1. Attenzione alla rendicontazione sociale nei territori
In quegli anni si afferma nella Pubblica Amministrazione il concetto di rendicontazione pubblica, già promosso a livello europeo, riconosciuto formalmente con la Direttiva del 2006 del Ministro della Funzione Pubblica sul Bilancio sociale nelle pubbliche amministrazioni. Il Bilancio di Genere è quindi accolto come uno degli strumenti di rendicontazione sociale assieme al bilancio sociale, al bilancio ambientale e a quello partecipato.
2. Attenzione all’empowerment di genere stimolata dalla delega delle politiche attive del lavoro ai territori
Un altro elemento favorevole è dovuto ai grandi cambiamenti organizzativi nelle politiche per il lavoro di quel periodo. L’attribuzione alle Province delle responsabilità dei Centri per l’Impiego, obbliga infatti queste amministrazioni ad assumersi la responsabilità delle politiche attive per il lavoro territoriali, in aggiunta a quelle per la formazione FSE, spesso ad esse già delegata dalle Regioni. Questo passaggio di competenza aumenta in misura significatia la consapevolezza da parte delle amministrazioni locali di dover intervenire a favore delle donne sia a livello lavorativo che in termini più ampi di empowerment e di gender mainstreaming. Non è un caso, quindi, che proprio in quegli anni le Province siano le maggiori protagoniste nel promuovere il Bilancio di Genere.
3. Ruolo della Rete territoriale delle Consigliere di Parità
Un altro contributo importante al Bilancio di Genere arriva anche dalla Rete delle Consigliere di Parità che in quegli anni è particolarmente attiva anche grazie ad un ampliamento delle responsabilità e competenze previsto da un Decreto di quel periodo (D.Lgs dell’11 aprile 2006, n. 198) e alla conseguente disponibilità di budget adeguati per promuovere iniziative nei territori.
4. Disponibilità di risorse finanziarie per sviluppare gli studi di Bilancio di Genere grazie al Fondo Sociale Europeo e ad alcune leggi regionali
Importante è anche la disponibilità di fondi che sostiene il costo di redazione dei Bilanci di Genere. La programmazione FSE 2000-2006, che prevede risorse per azioni di sistema all’interno di una misura specifica dedicata alle donne, la misura E1, è la base finanziaria che sostiene diversi Bilanci di Genere nei primi anni, mentre fondamentale per l’attività di diffusione e di promozione iniziale è, come si è visto, ancora un progetto Europeo. In altri casi le risorse provengono dai budget delle Consigliere di parità o da quelli dedicati agli strumenti di rendicontazione quali il bilancio sociale. Nei territori dove le Regioni assumono un maggiore ruolo di governance, anche in virtù di leggi regionali finanziate spesso con il FSE, quali l’Emilia Romagna, la Toscana e il Piemonte, si produce quindi la maggiore diffusione territoriale.
Punti di forza del Bilancio di Genere in Italia
Il principale punto di forza del Bilancio di Genere in Italia è quello di riuscire a dare, nonostante evidenti limiti dei dati e delle statistiche di genere, l’idea di uno strumento concreto e attuabile a livello quotidiano da parte delle amministrazioni. superando lo scoglio dell’elaborazione teorica proposta a livello internazionale.
Un altro punto di forza è dato dal raggiungimento nel decennio 2000-2010 dei livelli più alti di carriera da parte di una classe dirigente pubblica appartenente alla generazione formatasi negli anni 70, all’epoca della seconda ondata femminista. Questo elemento generazionale è determinante per stimolare la sensibilità, l’attenzione e la cultura politica dei/delle decisori/e pubblici nei territori, sia politici che amministrativi che in quel periodo si impegnano su questo tema.
Punti di debolezza del Bilancio di Genere in Italia
Il Bilancio di Genere in Italia ha dei punti di debolezza che dal 2010 in poi ne hanno sostanziamente arrestato la diffusione a livello territoriale. Tra i più rilevanti possiamo citare:
- L’intrinseca debolezza della condizione delle donne in Italia,
talmente fragile che fino ad oggi non è riuscita a tradursi in una domanda politica coesa da parte dell’elettorato femminile per una reale parità di genere.
- La mancanza di una domanda elettorale e di movimenti femministi forti a supporto di istanze collettive gender sensitive.
Gli anni 2000, sull’onda lunga della cultura neoliberista e individualista degli anni 80, si caratterizzano per una crescita solo individuale dell’empowerment femminile nella società e da un’assenza pressoché generale di un approccio collettivo se non per istanze specifiche (vedi ad esempio i centri antiviolenza). Questa mancanza, contrapposta ad una classe dirigente formatasi invece negli anni 70, produce quindi a tutti i livelli politiche di empowerment femminile calate dall’alto ma non necessariamente sentite o richieste dall’elettorato femminile.
- L’impossibilità di dare conto dei processi decisionali che danno origine ai bilanci previsionali (gender budgeting).
Una delle critiche più frequenti che viene portata al Bilancio di Genere è quella di fermarsi sempre al livello di rendicontazione (gender auditing) senza mai riuscire ad intaccare le decisioni che sovrintendono la formazione dei bilanci a livello previsionale (gender budgeting).
I motivi di tale limite sono di due ordini.
Da una parte sviluppare a livello politico il gender budgeting è un processo di cambiamento davvero radicale e profondo che sposta soldi ed equilibri e che le amministrazioni non hanno la forza/determinazione/volontà di affrontare, anche tenendo conto della debole richiesta elettorale in tal senso.
Dall’altra permane tuttora l’impossibilità di dare evidenza documentale dei processi decisionali che sovrintendono la formazione dei bilanci di previsione, chiusi in dibattiti, spesso notturni, delle Giunte, dei quali non viene dato resoconto scritto. In alcuni casi virtuosi, dove invece sono state assunte decisioni politiche scaturite dalla maggiore consapevolezza legate al Bilancio di Genere, non ne è quindi rimasta evidenza pubblica, ma solo privata e confinata nel rapporto confidenziale tra esperte e amministratrici.
- La mancanza di formazione adeguata del personale della pubblica amministrazione.
Dal punto di vista tecnico, il Bilancio di Genere in Italia ha sviluppato metodi, procedure, prassi e schemi di analisi grazie ad esperte esterne all’amministrazione, di origine accademica o consulenziale che hanno avuto anche una funzione di stimolo alla classe politica attraverso proposte di obiettivi di miglioramento. La riduzione progressiva di risorse a partire dal 2010 ha indotto le amministrazioni a smettere di fare Bilanci di Genere o ad assegnarli al personale interno, quasi mai specificatamente formato su tali tematiche. Ne sono usciti così Bilanci di Genere di carattere amministrativo e rendicontativo, formalmente corretti ma senza ambizione politica di cambiamento rispetto alle politiche gender sensitive.
- La mancanza di risorse adeguate per i processi di gender accountability.
Di fatto, il Bilancio di Genere in Italia è stato promosso soprattutto con risorse del Fondo Sociale Europeo e in parte molto minore con risorse regionali o degli enti locali. In questo senso l’attenzione, anche finanziaria, che ha avuto l’Unione Europea per le donne nella programmazione FSE 2000-2006 è stata determinante, mentre la riduzione di tali risorse nelle programmazioni successive ha poi progressivamente condizionato il finanziamento di nuove sperimentazioni, non compensate adeguatamente da interventi sostitutivi delle Regioni o dello Stato.
La situazione del Bilancio di Genere oggi in Italia:
Pur provenendo da un percorso di diffusione del Bilancio di Genere molto ricco e intenso, oggi la diffusione di questo strumento nei territori italiani si è quindi di fatto arrestata a parte poche eccezioni.
La recente crisi Covid e la presa di consapevolezza collettiva dei rischi di sostanziale e ulteriore arretramento della condizione femminile, sta però portando in questi giorni alla ribalta una maggiore attenzione politica e istituzionale a tutti i livelli a strumenti di valutazione di impatto di genere delle politiche.
Le due recenti iniziative del MEF e della proposta di legge potrebbero quindi aprire un nuovo ciclo di interesse per il Bilancio di Genere nel nostro paese.
La storia che ho però qui raccontato insegna che:
- se davvero si vuole utilizzare il Bilancio di Genere a supporto del cambiamento ci vogliono risorse, tempo e disponibilità: non è uno strumento compilativo che si scrive in automatico a zero budget.
- il Bilancio di genere non può scatenare da solo un cambiamento nelle strategie politiche, ma le può accompagnare, offrendo la base di conoscenza necessaria per prendere decisioni che devono però essere già sostenute da una forte volontà politica e legittimata da un consenso elettorale convinto sull’obiettivo della parità di genere.
Per far funzionare davvero il Bilancio di Genere bisogna quindi lavorare per costruire un comune sentire tra le donne, dare una direzione alle richieste di intervento elaborando strategie, raccogliere ed ordinare consenso, crescere nell’ambizione di rappresentanza e orientare l’uso del risorse al bene di tutte e di tutti.